4. I salvagenti recuperati in mare.

Nei giorni immediatamente successivi al disastro una delle prime preoccupazioni dell'inquirente fu quella di recuperare e concentrare i relitti del velivolo. Infatti la Procura di Palermo, a distanza di quarantotto ore dall'incidente dispose, come già s'è detto, il trasporto dei reperti presso l'aeroporto Boccadifalco di Palermo. In questa attività purtroppo si registrarono gravi lacune, tra cui vale la pena di ricordare la mancata redazione di un elenco analitico del materiale all'atto del deposito, oltre all'imprecisa descrizione ed alla omessa inventariazione dei reperti da parte delle unità impegnate nel recupero. Certo è che alcuni reperti, forse tra i più interessanti, non sono stati trasferiti a Ciampino ma abbandonati invece nell'aeroporto palermitano e mai più ritrovati; tra gli altri il casco "John Drake", il serbatoio del T33, il carrello anteriore di un aereo, a detta di Lippolis, della 2a guerra mondiale (v. audizione Lippolis Guglielmo, Commissione Stragi, 16.01.90).

Nel periodo in cui l'inchiesta rimase nella titolarità della Procura della Repubblica di Palermo furono conferiti, come s'è detto nel relativo titolo, più incarichi peritali, tra i quali si deve ricordare la perizia Cantoro ed altri, che rispose ad alcuni immediati quesiti formulati da quell'AG. Da una lettura dei quesiti posti emerge l'immediato interesse dell'inquirente all'accertamento della presenza o meno tra quanto era stato o s'andava recuperando di reperti appartenenti ad uno o più velivoli diversi dal DC9 Itavia. I primi due quesiti infatti sono: "1. Accertino i periti quali tra i relitti ed i reperti rinvenuti non appartengono ad un aereo DC9; 2. Accertino i periti se tra i relitti ed i reperti ve ne siano taluni appartenenti ad altro tipo di aereo, diverso dal DC9, e dicano in tal caso a quale tipo di aereo appartengano, anche sotto il profilo merceologico".

Il 26 novembre successivo il prof. Cantoro riferiva fornendo un elenco analitico dei relitti che sicuramente non appartenevano al DC9: tra gli altri "due giubbetti salvagente tipo marina con materiale di galleggiamento rigido sagomato a volume fisso, di fabbricazione statunitense come risulta dalla marca costruttrice. L'aeromobile DC9 è dotato, come tutti gli aerei passeggeri, di salvagente autogonfiabili".

A tal proposito, occorre sottolineare che all'interesse dell'AG di Palermo - l'ordinanza è del 3 luglio - verso i reperti era comunque immediatamente seguito quello dello Stato Maggiore dell'AM, che il 4 seguente inviava a Boccadifalco il colonnello Bomprezzi ed il tenente colonnello Argiolas, rispettivamente appartenenti al 2° e 3° Reparto SMA, con l'incarico di prender visione, in forma riservata, dei reperti ivi concentrati e di accertare se tra di essi vi fosse materiale non appartenente al velivolo precipitato.

L'esito di quella missione è condensato in un appunto del 2° Reparto/SIOS per il S.I.S.MI e per il Gabinetto del Ministero della Difesa, corredato da ventidue fotografie, in cui, come già s'è detto, i reperti erano stati divisi in tre categorie: a. quelli certamente del velivolo in argomento, b. quelli presumibilmente a bordo del velivolo, c. quelli che non facevano certamente parte dell'aeromobile. Nelle fotografie allegate appaiono con chiarezza, nel vario materiale accatastato, due salvagenti di colore rosso di tipo marino con imbottitura galleggiante, che nel predetto appunto erano dettagliatamente descritti e collocati nella categoria dei materiali non facenti parte del velivolo Itavia.

Il primo salvagente viene così descritto: di colore rosso sbiadito, di tipo marino con imbottitura galleggiante, recante stampate sul tessuto le sigle "NSA OMB" e sulla targhetta bianca in tela, nella parte interna del giubbotto "Fibrus Glass Life Preserver Manufactured at the Savegard Corp. 1975-DSA-700-75-C-5924 in accordance Sec 2 -Charter 33 - Buships Manual" (foto nr.7,8,9,10). Il secondo, pur avendo caratteristiche identiche al primo, variava nelle sigle; infatti vi era riportato "CV60 UB4 DECU" e sulla targhetta i numeri d'identificazione del materiale "DSA 700-74-C-6476" (foto nr.11,12,13). L'appunto SIOS concludeva sostenendo che era "presumibile che essi (reperti non appartenenti al DC9) provenissero da natanti in transito, ad eccezione della sonda meteorologica, caduta in mare in data imprecisabile".

I due salvagenti che, si ricordi, erano stati individuati da una motobarca del Doria il 29 giugno, alle ore 06.41 in un'area maggiormente interessata al recupero, compresa nei punti 39.13N-13.09E, risultano indicati, seppur genericamente, nel processo verbale redatto il 24.12.80 e recante la firma di Furci Rocco, comandante dell'Aeroporto di Palermo-Boccadifalco in occasione del trasferimento presso i laboratori dell'AM siti in Roma, di tutti i reperti giacenti a Boccadifalco.

Al riguardo vale la pena di sottolineare che il concentramento, richiesto dalla Procura della Repubblica di Roma e disposto dal 4° Reparto dello SMA (v. nota della Procura del 17.11.80), fu connotato da inesattezze ed incertezze alle quali contribuì il pressappochismo degli enti militari - AM e CC. - che gestirono quel trasferimento, avvenuto tra l'antivigilia e la vigilia di Natale, senza alcuna preoccupazione di redigere in maniera analitica e dettagliata un elenco del materiale; i reperti partirono alla rinfusa da Boccadifalco e così giunsero all'aeroporto di Ciampino; nello stesso stato, l'antivigilia di Capodanno, furono trasferiti ai laboratori dell'AM di via Tuscolana. Per di più, le testimonianze rilasciate da coloro che parteciparono in prima persona ai passaggi relativi al trasferimento del materiale risultano alquanto vaghe e imprecise. Una circostanza purtroppo assolutamente negativa perché l'inchiesta ha dovuto registrare la "perdita" di reperti di sicura significatività.

Proprio in ordine a questo controverso trasferimento, il prof. Cantoro - che era stato incaricato dall'AG di Palermo anche di curare, al momento in cui gli fosse stato comunicato, il concentramento dei reperti da Boccadifalco a Roma - così riferiva testualmente: "mi risulta che il 23.12.80, alle ore 17.00, a mia insaputa, i reperti siano partiti da Boccadifalco per Roma-Ciampino con un a/m G222. Non essendo stato avvisato, non ero presente al carico e quindi non so se tutti i reperti siano stati caricati. Successivamente ho rilevato che l'elenco dei reperti consegnati al laboratorio AM di Roma in data 30.12.80 non era completo rispetto all'elenco che avevo a Palermo. Comunque certamente a Napoli il 19.02.87 mancava il reperto nr.1" (v. esame Cantoro Giulio, GI 20.01.97). Dichiarazioni che danno certamente il senso delle responsabilità in cui incorse l'AM.

Dall'indagine disposta da questo GI e condotta dall'Interpol negli Stati Uniti presso il Comando Generale della Guardia Costiera, è risultato che quei reperti erano giubbotti di fibra di vetro in dotazione alle forze militari. L'articolo era stato prodotto in grande quantità per molti anni e destinato alla Marina Militare ed alla Guardia Costiera degli Stati Uniti. Generalmente quel giubbotto non doveva essere utilizzato a bordo di velivoli militari statunitensi, ma potevano esserne dotati occasionalmente gli elicotteri di soccorso durante le operazioni di emergenza. Comunque, era da sottolineare che l'uso di esso non era autorizzato a bordo di velivoli e navi civili o per il trasporto merci.

Per quanto riguarda il primo giubbotto, le indicazioni riportate sulla targhetta hanno consentito di individuare la ditta produttrice cioè la "Safegard Corporation Ohio". La dicitura DSA, seguita con numero, stava ad indicare il contratto. La sigla NSA indicava di solito "Naval Support Activity" ovvero una particolare articolazione della Marina Militare statunitense con funzioni logistiche. OMB indicava di solito "Outboard Motor Boat". Quindi il giubbotto in questione doveva provenire da una piccola imbarcazione fuoribordo in dotazione ad una unità navale di supporto.

Il secondo giubbotto, come già accennato, era del medesimo tipo del primo e, particolare non trascurabile, le sigle CV60 UB4 DECU, indicavano la sua provenienza ossia la U.S.S. Saratoga con numero d'imbarcazione militare Navy Vessel Number CV60. La sigla UB4 indicava con ogni probabilità "Utility Boat 4". La sigla DECU si riferiva probabilmente ad un particolare settore della nave, forse la zona ponte. Questi elementi consentivano all'ente americano di affermare con certezza che quel giubbotto provenisse da una delle scialuppe di salvataggio della portaerei americana Saratoga (v. rapporto Interpol, 21.04.92). Ma consentono altresì affermazione analoga sull'altro giubbotto, che con ogni probabilità appartiene alla stessa unità, quanto meno ad altra della stessa Marina.

Prima ancora, questo GI aveva interpellato lo Stato Maggiore della Marina Italiana, che al riguardo riferiva che il significato delle sigle "NSA-OMB" e "CV60 UB 4 DECU" era sconosciuto. Lo SMM riferiva inoltre di aver interessato in merito il paritetico Stato Maggiore statunitense, secondo cui la sigla "NSA-OMB" non aveva nulla di noto, anche se le sigle "CV60 UB4 DECU" indicavano, rispettivamente: la prima, la portaerei Saratoga; la seconda, un'unità di supporto logistico; mentre per la terza non risultavano evidenze (v. rapporto del ROCC dell'11.05.92).

Al fine di chiarire le circostanze relative a questi salvagenti, è stato esaminato anche il comandante della Saratoga, ammiraglio Flatley (v. esame Flatley, in rogatoria USA 10.12.92). Questi ha dichiarato preliminarmente: "che il salvagente si sia trovato nell'immediatezza del fatto è un'altra coincidenza". Ha poi aggiunto che quel tipo di salvagente veniva utilizzato nel compimento di operazioni di trasbordo o sulle scialuppe per raggiungere la terra. Infatti a bordo della portaerei c'erano circa quattrocento esemplari di quel salvagente. L'ammiraglio ha specificato che a volte i marinai piuttosto che aggiustarli li gettavano in mare e quindi durante l'anno se ne perdevano diversi. Comunque non si trattava di salvagenti per piloti d'aereo né venivano usati sugli elicotteri. A bordo c'era anche un terzo tipo di salvagente, un giubbotto meno ingombrante che veniva usato dai marines addetti alle operazioni di manutenzione sui ponti.

L'esito di tale attività istruttoria, già di per sé particolarmente apprezzabile per le implicazioni che ne scaturiscono, acquisisce maggiore pregnanza se si tiene conto delle dichiarazioni, alcune assurdamente laconiche e sconfortanti, rese da coloro che, per motivi connessi alle loro funzioni, avevano conoscenze specifiche riguardo ai reperti e, nel dettaglio, ai due giubbotti di chiara origine americana.

Bomprezzi, l'ufficiale del SIOS, che era stato inviato appositamente presso l'aeroporto di Boccadifalco per esaminare i reperti e nell'occasione aveva ben visto nell'hangar dell'aeroporto quei salvagenti, non collegò assolutamente le sigle che vi apparivano con unità militari. Ed ha preferito accollarsi una pessima quanto incredibile figura, piuttosto che dire la verità, asserendo di non conoscere i codici di identificazione delle navi. Egli che occupava un così alto grado nell'intelligence di forza armata e così mostra di non conoscere la sigla numerica di una portaerei della 6a Flotta, cioè di una flotta dislocata nel Mediterraneo e non nel Pacifico o l'Indiano. (v. esame Bomprezzi Bruno, GI 22.06.92).

Tascio, il comandante del SIOS, che dapprima mostra solo un labile ricordo sulla circostanza del rinvenimento dei due salvagenti di chiara marca americana, e quindi specifica "no, non richiamò... la mia attenzione, no di sicuro e penso che non abbia richiamato l'attenzione neppure del colonnello Bomprezzi. Certamente, forse, si è rilevata la provenienza perché essendoci questo, non so affatto" E comunque esclude che siano state fatte delle ricerche volte a conoscere le unità navali da cui potevano provenire i due salvagenti (v. interrogatorio Tascio Zeno, GI 29.05.92).

Più decisa e senza tentennamenti la risposta di Bartolucci. Nel ricordare che poco dopo la sciagura lo Stato Maggiore dispose l'invio di "due o tre ufficiali" a Boccadifalco per visionare i reperti, afferma che non si ritenne di prestare una particolare attenzione a quei reperti, perché "chiaramente erano in mare da tantissimo tempo o comunque non ci azzeccavano assolutamente con questo incidente, questo è quello che è stato riportato" (v. interrogatorio Bartolucci Lamberto, GI 26.05.92).

Luzzatti Carlo, presidente dell'omonima Commissione ministeriale, non ha ricordato la presenza di due salvagenti di tipo marino, affermando poi che "questi oggetti non provenienti dall'aereo non furono presi in considerazione dalla Commissione" (v. esame Luzzatti Carlo, GI 24.05.91).

Soltanto il pilota dell'Itavia, Grilli Giorgio, imbarcato sul Doria durante la fase di recupero dei relitti, ha sostenuto che il giubbotto US Navy, da lui visto sul ponte di quella unità, non poteva "essere interessato all'incivolo in quanto ricoperto da telline" (v. esame Grilli Giorgio, GI 26.02.92). Ma di certo egli ha visto qualcosa di diverso dai nostri due salvagenti, tenuto conto che questi non recavano alcuna scritta che li riconducesse direttamente alla Marina degli Stati Uniti, e nessuno, testi e periti che pure li avevano visti ed esaminati, aveva mai riferito di oggetti con lunga permanenza in mare; tra l'altro dalla visione delle fotografie scattate ai salvagenti in questione subito dopo il ripescaggio ed anche da quelle dirette dei reperti sino ai giorni nostri non vi appaiono mitili o simili.

Questi salvagenti, unitamente agli altri reperti del DC9 Itavia, nel dicembre dell'80 furono trasferiti presso i laboratori dell'AM - 4° Reparto dello SMA, ove rimasero fino al 1985, anno in cui su richiesta della Commissione Blasi, questo ufficio dispose il concentramento presso l'aeroporto di Capodichino. Avverrà solo dopo il 90, la definitiva ed attuale collocazione dei reperti presso l'hangar Buttler di Pratica di Mare. In conclusione quei salvagenti erano caduti in mare da pochissimo tempo prima del loro recupero. Queste perdite, s'è detto, non comportano una registrazione in una qualche memoria, e tal giustificazione potrebbe essere anche accettabile. Sarebbe invece stato ricostruibile, anche sulla base della semplice consultazione dei libri di bordo, l'occasione in cui quei salvagenti erano caduti in mare. Anche nel caso di un improbabile colpevole gesto di un qualche marinaio, sarebbe comunque bastato accertare quando, in quale data, l'unità era passata su quelle coordinate o in quell'area avesse mandato elicotteri o scialuppe.

Oltre ai due salvagenti sopra descritti, agli atti dell'inchiesta risulta una segnalazione della Compagnia CC. di Termini Imerese concernente il rinvenimento, in data 21.08.80, nelle acque antistanti il Comune di Trabia (PA), di un giubbotto salvagente di colore arancione, completo di custodia di colore grigio scuro riportante la seguente scritta: "manufactured August 1979 Contract nr. DLA 700=79=C=2119=U.S. Navy". Peraltro, quello stesso Comando Compagnia riferiva che nel proprio archivio ed in quello della dipendente Stazione CC. di Trabia non figuravano atti, oltre alla segnalazione di rinvenimento, sul citato giubbotto, e che esso non era più custodito nei locali di quel Comando, né risultavano atti di trasmissione ad altri enti.

In data 9.07.92 questo Ufficio interpellava per rogatoria il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti al fine di conoscere in quale occasione era stato smarrito questo terzo giubbotto. La risposta dell'organo collaterale americano fu lapidaria: tenuto conto del lungo tempo trascorso, non esisteva alcuna documentazione di riferimento (essa veniva conservata per scopi di inventario e contabilità per non più di un anno) che consentisse di esaudire il quesito richiesto.

Dietro