11. Le dichiarazioni di Rotondo Biagio.

Come si è già fatto cenno in altra parte non pochi sono stati i personaggi che per vari motivi - chi animato dallo spirito di contribuire alla ricerca della verità, chi animato da manie di protagonismo e chi, invece, con il solo scopo di inquinare l'inchiesta giudiziaria - hanno riferito circostanze riconducibili all'evento. Parte di costoro ha riferito scenari in cui veniva coinvolta la Libia. Scenari la cui provenienza era di fonte araba. Uno di questi è Rotondo Biagio.

Costui, detenuto nell'84 nel carcere di Civitavecchia, ricevette nel maggio-giugno di quell'anno la visita di una persona, che non si sarebbe presentata e della quale non ha mai saputo il nome, che - asserendo che vi erano "degli amici in carcere che si sarebbero interessati al suo procedimento" - gli richiese una sua disponibilità per "qualcosa che gli avrebbe fatto sapere". Nel luglio-agosto di quello stesso anno venne trasferito inspiegabilmente al carcere di Viterbo, ove dopo qualche settimana ricevette una nuova visita della stessa persona, questa volta in compagnia di altro personaggio, che non intervenne nel colloquio, ma con il quale al termine il primo visitatore parlò in inglese. Il colloquio ebbe ad oggetto la richiesta, nei suoi confronti da parte di quel primo visitatore, di controllare due militari libici detenuti in quel carcere per omicidio ai danni di connazionali in Roma e già condannati all'ergastolo.

Il Rotondo si adoprò e fece amicizia con i due libici, in particolare con uno che era chiamato Iuba. E così nell'inverno dell'85 nel corso di una conversazione su temi politici, il Rotondo contestò allo Iuba le "esecuzioni" ordinate dal regime libico e compiute da ufficiali nei confronti di dissidenti ovunque in Europa, chiedendo se un governo di tal fatta potesse essere definito democratico. Lo Iuba replicò affermando che tutte le persone giustiziate nell'80 erano non solo oppositori del regime, ma anche elementi con ruoli attivi in progetti di soppressione del colonnello Gheddafi. E sulla questione in particolare riferì che nell'ultimo tentativo di attentare alla vita del leader libico - e qui ovviamente lo Iuba si riferisce sempre all'80 - avevano perso la vita, per errore, i passeggeri del DC9 Itavia. Aggiunse, a completezza di tale versione, che tempo prima del disastro di Ustica un MiG dell'Aeronautica Libica, condotto da un dissidente, era fuggito in Egitto, ove il pilota aveva chiesto asilo politico; che in seguito quella macchina era stata consegnata dagli egiziani agli Stati Uniti; che quindi gli americani in combutta con gli oppositori del regime, avevano deciso di usare quel mezzo per abbattere l'aereo di Gheddafi di ritorno da Vienna ove si era recato per una riunione dei Paesi membri dell'Opec.

Il piano fallì perchè Gheddafi, mentre si trovava ancora a Vienna fu avvisato da "Italiani" non meglio specificati. Gli Stati Uniti appresero del fallimento del piano nel corso della fase operativa, allorchè i velivoli interessati all'operazione erano già in volo. Allo scopo di sopprimere le prove del loro coinvolgimento nel piano, gli americani dettero ordine ai loro velivoli di abbattere il MiG, ma uno di questi velivoli colpì, per errore, il velivolo civile italiano. Il MiG23, che era decollato da una base militare in Sardegna ed era pilotato da un tedesco orientale, nel tentativo di sottrarsi al fuoco americano andò a schiantarsi sulle montagne della Sila.

I libici avevano acquisito prove delle responsabilità ed intendevano usarle per ricattare politicamente le nazioni coinvolte. Anche i francesi avevano recuperato reperti compromettenti. Iuba, a conclusione di questi discorsi affermava di esser certo dei fatti riferiti, avendo letto brani di trascrizione di conversazioni avvenute nei momenti culminanti dell'operazione; e che tali trascrizioni come le informazioni per sventare l'attentato e gli elenchi dei dissidenti libici, erano stati forniti dagli italiani.

A distanza di poco tempo da questi colloqui era riapparso, al carcere, il personaggio che gli aveva chiesto di "avvicinare" i libici. Rotondo gli riferisce quanto appreso da Iuba, anche se in maniera succinta e cioè limitandosi alle ragioni per cui i dissidenti libici erano stati eliminati e cioè perchè progettavano attentati contro Gheddafi, e aggiungendo che nel corso di una di queste operazioni si era verificato il disastro di Ustica. Nell'apprendere di questa strage l'individuo mutò espressione e si congedò, consigliando il Rotondo di non intrattenere più rapporti con i libici. Dopo alcuni giorni da questo incontro giunse nel carcere di Viterbo l'ambasciatore libico che ebbe colloquio con i detti suoi connazionali. Da quel giorno costoro mutarono radicalmente atteggiamento nei confronti del Rotondo, con il quale ridussero i rapporti solo allo scambio di semplici saluti.

Prima che ricorresse Pasqua di quell'85 il Rotondo fu colto da malore e ricoverato nell'infermeria del carcere. Qui il medico della casa di reclusione gli riscontrò avvelenamento e ne dispose ricovero all'ospedale della città ove fu trattenuto per un giorno, dopo di che riportato in carcere e tenuto in astanteria per un paio di giorni. Permanendo il malessere il nostro fu trasferito all'infermeria di Regina Coeli di Roma. Qui stette per alcuni giorni, dopo di che fu tradotto al carcere di Massa ove erano reclusi dei detenuti, che, come annotato nella sua cartella carceraria, non poteva incontrare, perchè il loro capo, tale Rossi Ubaldo Maria aveva, nel febbraio dell'80, attentato alla sua vita nel carcere di Chiavari.

Nei mesi successivi, sempre in quell'anno, Rotondo apprese che i due libici erano stati scambiati, nonostante la condanna all'ergastolo, con alcuni cittadini italiani, condannati anch'essi all'ergastolo per spionaggio in Libia. Fatto che gli fece stimare l'importanza di quei due per il loro Governo.

Non ritenne mai opportuno riferire alle Autorità italiane quanto a sua conoscenza sulla strage, perchè appresa la volontà di recuperare il relitto, stimò che da esso si potesse giungere alla verità. Sino a quando non sentì le parole del Ministro dell'Interno, Maroni, a commento dell'esito della perizia, che concludeva in favore di un ordigno interno all'aeromobile; Maroni che testualmente aveva dichiarato: "A questo punto soltanto un miracolo potrà svelare il mistero".

Al termine di tale lunga deposizione il Rotondo ci tenne a precisare che nulla chiedeva in cambio di quelle sue dichiarazioni, perchè in attesa di essere ammesso a giorni, al regime di affidamento in prova al servizio sociale. (v. esame Rotondo Biagio, PG 01.08.94).

Richiesti al carcere di Viterbo i nominativi di eventuali detenuti libici nel periodo in questione, la Direzione di quella Casa in un primo momento rispondeva di non aver rinvenuto i registri, smarriti a causa di trasloco dalla vecchia casa circondariale. In un secondo momento a seguito di più fruttuose ricerche, sollecitate presso la locale Procura da questo Ufficio, ed esperite personalmente dal Direttore del carcere, quella documentazione veniva rinvenuta e restava così confermata la presenza del Rotondo, in quell'Istituto, mentre veniva esclusa quella dei cittadini libici (v. missiva casa circondariale di Viterbo, 26.10.94).

Richiesti al Ministero di Grazia e Giustizia i luoghi di detenzione dei libici restituiti al Paese di origine, come risultava da altri atti, emergeva che tali Uida Juseph in effetti era stato detenuto nel carcere di Viterbo nel periodo in cui vi era ristretto il nostro e cioè dal 3 maggio 83 al 12 aprile 85 salvo il mese che va dal gennaio al febbraio 85 per motivi di giustizia a Roma, che coincide di certo con le udienze del processo in appello come dichiarato dal Rotondo (v. nota del Ministero di Grazia e Giustizia del 30.05.97).

Esaminato nuovamente, il Rotondo confermava sostanzialmente i fatti dichiarati, precisando di avere stretto rapporti particolarmente con il libico "che si faceva chiamare Juseph" e di cognome Wida, riccio di capelli. Aggiungeva che i due ricevevano visite periodiche di funzionari dell'Ambasciata e dello stesso Ambasciatore del loro Paese, ed apparivano persone di una certa "levatura nel loro ambiente". Aggiungeva altresì che lo scenario descritto non fu narrato su sua richiesta, bensì nell'ambito di un discorso occasionalmente iniziato un giorno in cui la stampa o la televisione parlavano dei possibili scenari di Ustica.

Precisava poi l'ordine in cui erano avvenuti gli incontri con il "personaggio". A questi dapprima riferì lo scenario quale lo aveva appreso. Costui non prese appunti, ma lo invitò a proseguire la raccolta delle confidenze. Di lì a qualche giorno ritornò in compagnia di colui che appariva uno straniero. Questa persona chiese al Rotondo di riferire più volte la narrazione dello scenario, senza mai interromperlo, ma dicendo soltanto "si ricordi i particolari". Il personaggio non intervenne mai, se non per dire, all'inizio dell'incontro, di riferire al suo accompagnatore tutto quello che aveva già narrato. Il colloquio durò circa tre quarti d'ora. I due non presero appunti, al punto che, in considerazione dell'interesse mostrato, il Rotondo ritenne che occultamente registrassero la conversazione. Lo straniero accentuò il suo interesse allorchè Rotondo parlò dell'esistenza di una registrazione, nelle mani dei libici, di colloqui concernenti i minuti culminanti della vicenda.

Precisava anche che quando i due libici ritornarono a Viterbo - da Roma, ove avevano presenziato al processo d'appello - mostrarono un radicale cambiamento di atteggiamento nei suoi confronti, asserendo a giustificazione che era meglio non mostrarsi insieme per non pregiudicare il progetto di evasione che esso Rotondo con loro stava coltivando.

Costui poi riconosceva in album fotografico i suoi due interlocutori: l'uno in Uida Joussef Msallata, proprio cioè colui che era stato arrestato e condannato per l'attentato commesso il 19.04.80 a Roma a danni di Abduljalil Zaki Aref esponente dell'opposizione al regime; l'altro in Mohamed Sidki Saied Duos arrestato il 24.02.81 a Fiumicino unitamente a Yumaa Mohamed El Mezdawi in quanto responsabili di un'azione terroristica contro il dissidente libico Magarief, e poi entrambi restituiti alla Libia, come afferma il Rotondo, il 5 ottobre 86.

Questi aveva anche chiesto al suo interlocutore - riferiva da ultimo - come fosse venuto a conoscenza delle vicende di Ustica e del MiG23, e Joussef gli aveva risposto di essere continuamente informato dalle autorità del suo Paese, attraverso quei funzionari dell'Ambasciata che periodicamente lo visitavano e rifornivano di denaro (v.esame Rotondo Biagio, GI 30.05.97).

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