Martinelli, che firma e dirige il film, ha compiuto senz’altro un atto molto coraggioso che sta riaccendendo i riflettori su una delle pagine più buie della nostra storia, come aveva già fatto con la tragedia della diga del Vajont (1963) e con il sequestro Moro (1978).
Il suo film, tuttavia, non è una fedele ricostruzione dei fatti né, tantomeno, è «inconfutabilmente supportato da materiale documentale», come afferma il regista.
È pur sempre un film, direbbe chi se ne intende di cinema. Ma una storia complessa come questa forse non meritava una ricostruzione cinematografica in cui – come ha scritto anche la Rai bocciando la sceneggiatura sottoposta dalla Martinelli Film Company International – è fin troppo evidente una «commistione non perfettamente equilibrata tra elementi di finzione, personaggi di fantasia e fatti realmente accaduti, tale da determinare delle criticità di narrazione rispetto alla delicatezza della materia trattata».
Tralasciando le conclusioni – e cioè che a causare la caduta del Dc9 Itavia sarebbe stata una collisione in volo con un caccia americano senza alcuna responsabilità francese – saltano all’occhio, già dalle prime battute, una serie di macroscopici errori e di alterazione della realtà.
Per non parlare, poi, dell’uso – disinvolto e molto discutibile – di pezzi di storie reali delle vittime e dei loro familiari. In particolare quella di Giuliana Superchi, la piccola passeggera che era a bordo del volo Itavia senza i suoi genitori, che nel film si chiama Benedetta. Lei è il simbolo di Ustica, ma nel film è inspiegabilmente stravolta, a tal punto da ritrovarsi una mamma giornalista, Roberta Bellodi, interpretata da Caterina Murino, e un papà che ha legami con la criminalità organizzata (l’attore è Enrico Lo Verso).
Benedetta, nel racconto di Martinelli, sale sul Dc9 accompagnata da un’hostess per raggiungere i nonni a Palermo perché sua madre non vuole farla incontrare con il padre.
La bambina ha con sé anche la pagella, e questo, assieme alla sua presenza sul volo, è uno degli elementi che lega la storia (finta) di Benedetta a quella (reale) di Giuliana Superchi. Nella realtà, la mamma di Giuliana non è una giornalista, la bambina sta raggiungendo suo papà, che si chiama Roberto e che non ha rapporti con la mafia. È semplicemente un uomo che ha perso una figlia di undici anni e da allora non ha mai smesso di cercare la verità. Dunque perché forzare così la sua storia?
È discutibile anche l’utilizzo delle immagini vere dello strazio dei familiari delle vittime fuori dall’obitorio di Palermo dove il giorno dopo la strage si svolse il riconoscimento delle salme. Perché mostrare quel dolore, ripescando i filmati dei telegiornali di allora, in un momento intimo e così tragico?
Le forzature si ripetono fino alla fine del film, mescolando pezzi di verità, presenti in più punti, a elementi di finzione. Si elencano per esempio i ritrovamenti in mare di oggetti che non appartengono al Dc9. Tra quelli realmente recuperati – un serbatoio supplementare di un caccia americano, un casco di un pilota americano, un giubbotto salvagente della portaerei Saratoga – si citano un seggiolino eiettabile e un pezzo di carlinga di un jet statunitense mai repertati secondo quanto afferma la sentenza-ordinanza del giudice Rosario Priore a cui Martinelli si è ispirato.
Per quanto riguarda la vicenda del Mig libico, chiave di volta e asse portante dell’intera narrazione, lo vediamo aprire il film in fase di decollo dalla base di Banja Luka, in Jugoslavia, attraversare l’Adriatico, sorvolare a bassissima quota l’Appennino e incrociare la rotta del Dc9 alle 20.22 su Firenze. Al pilota è stato ordinato di percorrere lo Stivale per raggiungere la Libia sfruttando l’ombra di un volo civile della compagnia Air Malta. All’appuntamento, sull’Appennino, non trova l’aereo maltese bensì il Dc9 e si posiziona sotto di esso per eludere i radar. Viene identificato come ‘bandit’ da un Awacs americano e braccato prima da due F-104 italiani decollati da Grosseto e poi, con l’ordine di abbatterlo, da quattro caccia americani (si parla prima di due F-14 Tomcat e poi di altrettanti F-5 Aggressor decollati da Sigonella). La fuga del Mig termina in Calabria, sulla Sila, la stessa notte della tragedia di Ustica. Gli americani lo abbattono, ma uno dei due F-5 che lo inseguiva disimpegnandosi urta l’ala del volo Itavia e ne causa la caduta facendo spezzare in due la carlinga.
Anche qui ci sono lampanti incongruenze. È vero che i libici si recavano a fare manutenzione in Jugoslavia sfruttando corridoi italiani con il benestare del Sismi e della nostra Difesa aerea, è vero che il Mig trovato sulla Sila, ufficialmente il 18 luglio 1980, con ogni probabilità cadde lì la stessa sera della tragedia di Ustica, ma è improbabile che il velivolo libico (disarmato e senza serbatoi supplementari) abbia percorso la rotta narrata nella pellicola che supera i circa 1.300 chilometri di autonomia che aveva a disposizione. Una circostanza che, tra l’altro, non trova riscontro nelle carte dell’inchiesta.
Il film, escludendo il cedimento strutturale, sostiene con forza una possibile alternativa – la collisione in volo – alle tre principali ipotesi (near collision, missile o bomba) emerse dalle indagini. Accenna una sola volta al fatto che in volo ci fossero anche i francesi, pista che ancora oggi gli inquirenti seguono, e tralascia in quale ambito si sarebbe consumata la strage e quale poteva essere il reale obiettivo, cioè Gheddafi che quella notte doveva sorvolare i cieli italiani.
Nel film il Dc9 si destruttura in volo, un tema che per anni ha diviso esperti e inquirenti. Ma nel 2014 una complessa analisi, compiuta da un docente del Dipartimento di ingegneria aerospaziale dell’Università di Napoli, ha ribadito che il volo Itavia, pur con enormi danni alla carlinga causati con ogni probabilità da un missile, toccò il pelo dell’acqua integro e non in due o più parti come mostra la pellicola di Martinelli. (Fabrizio Colarieti / lettera43.it)