Doveva esserci anche lei, sopra, e tra le 81 vittime del disastro. Ma lei scese, dopo aver visto il comandante Gatti e l’ufficiale Fontana entrare in cabina, e con loro il capo degli assistenti di volo sistemare le proprie cose e accendersi una sigaretta. Scese dall’I-Tigi dove avrebbe dovuto rimanere e finire la giornata, e tornò a casa: «Dal controllo Charlie di Bologna mi avevano chiesto di rimanere a bordo e tornare indietro perché mancava una persona, ma non me la sono sentita e ho detto no, nonostante il fatto che una precaria debba sempre dire sì. Infatti fu sempre così, a parte quella volta. Non so spiegarmi perché, non ci fu un motivo preciso, ma quel rifiuto mi ha salvato la vita. È un peso che mi porto dentro da allora».
Negli ultimi giorni il peso è diventato un po’ più leggero, anche se le preoccupazioni sono aumentate, perché ha deciso di raccontare quello che nessuno, fino adesso, le ha mai chiesto di ricordare. Nessuno ha pensato di sentire quell’assistente di volo alla quale non fu rinnovato il contratto e passò poi ad Alitalia. Eppure faceva parte dell’ultimo equipaggio che portò a terra il Dc9 di cui fu detto tutto e il contrario di tutto, compreso che fosse una carretta del cielo: «Non è vero, andava tutto benissimo, non avevamo nessun problema».
MAI CONVOCATA. Il 27 giugno, l’I-Tigi fece sei voli con sei equipaggi diversi, ma solo alcuni tra comandanti e assistenti di volo furono sentiti dagli inquirenti. Fu sentito anche il comandante del volo che ha portato a Bologna il Dc9, ma non lei, la giovane hostess. Eppure proprio lei, testimone e sopravvissuta che col tempo ha maturato una specie di senso di colpa – umano e inconscio, verso i colleghi perduti, di cose da dire ne avrebbe avute. Una, in particolare, molto interessante. Che conferma, tra l’altro, quello che ha riferito nei giorni scorsi un ex pilota Alitalia (all’epoca Ati) ai magistrati che guidano la nuova inchiesta: anche lei, del resto, sarà sentita a breve dai magistrati. “Una flottiglia di navi con una portaerei e almeno altre tre-quattro navi” aveva detto il pilota ai magistrati di Roma con un interrogatorio secretato.
«Il giorno prima del disastro volavamo su un altro Dc9 e sopra al mare aperto, ad un certo punto, dal finestrino della cabina vidi sotto di noi un’enorme nave, circondata da altre messe a spina di pesce. Il pilota mi disse che poteva essere una portaerei americana. E poi mi disse: meno male che ci siamo noi, piloti veterani, altrimenti ci silurano». Forse il pilota scherzava, ma la hostess ricorda che la grande nave «aveva delle strisce, o per meglio dire dei tracciati come segnaletica». Era proprio il volo 870, lo stesso che il giorno dopo, il 27 giugno, si inabissò nel mare. E come il volo del disastro, anche loro stavano arrivando a Palermo. L’unica nave da guerra che corrisponda a quella descrizione, non è difficile immaginarlo, è proprio la portaerei che ha sul ponte la segnaletica necessaria al traffico degli aerei. “Forse volevamo bassi, o forse quella nave era davvero grande per poter essere vista così bene” ricorda la testimone.
In realtà, non dovrebbe essere stato molto difficile avvistare una sagoma di quella grandezza dal Dc9: secondo le risultanze del processo istruito da Priore, superata l’isola di Ponza l’I-Tigi in volo sull’aerovia Ambra 13 doveva scendere sotto gli 11mila piedi, vale a dire 3-4000 mila metri. Anche le condizioni di visibilità erano più che buone: cielo sereno e ancora parecchia luce, col sole che tramontava sul lato destro dell’aereo, puntato verso sud. Le stesse condizioni che ha trovato, sul volo 870, sia l’equipaggio impegnato il 26 giugno che quello, disperso senza traccia alle 20.56, del 27 giugno.
PORTAEREI. Di portaerei aveva parlato anche il pilota sentito dal pm Erminio Amelio e dalla collega Maria Monteleone. Uno scenario di manovre militari che è stato sempre negato da tutti, dall’Italia e da tutti gli altri paesi dell’Alleanza, alla comparsa del documento Nato che parla di 21 aerei in volo quella notte. Sulle portaerei, in particolare, americani e francesi sono sempre stati perentori.
La Saratoga a stelle e strisce, secondo il Pentagono, è rimasta ormeggiata in rada a Napoli dal 23 giugno al 7 luglio di quella tragica estate. Il registro di bordo, però, riporta una stranezza proprio il 27 giugno, perché i turni di guardia sono stati firmati con nomi diversi, ma con la stessa calligrafia. Anche i francesi, accusati per ultimo da Cossiga, hanno sempre negato che le loro portaerei Clemenceau e Foch fossero nella zona dove si è inabissato l’I-Tigi. Ma anche nel caso dei cugini d’Oltralpe, c’è una stranezza nei diari di bordo delle due navi: su quello di entrambe, infatti, il 27 giugno è stato scambiato col 28.
Sono crepe nel muro di gomma e forse possono diventare qualcosa di più, dopo che la Cassazione a fine gennaio ha sgombrato ogni dubbio: «È abbondantamente e congruamente motivata la tesi del missile». Il problema, ora, è metterci la targa. Nel frattempo, dopo la sentenza del settembre 2011 con cui il tribunale civile di Palermo ha condannato i ministeri di Difesa e Trasporti ad un risarcimento di 100 milioni di euro per i parenti delle vittime, prosegue la vicenda processuale in sede civile. I due dicasteri sono stati condannati, dopo un’istruttoria durata tre anni, per non aver saputo garantire la sicurezza del volo I-Tigi e per aver occultato la verità.
Due mesi fa, il 29 gennaio scorso, la Cassazione ha respinto i ricorsi dell’Avvocatura dello Stato contro la sentenza che dà ragione alle istanze portate avanti tra gli altri dall’avvocato Daniele Osnato che insieme al collega Alfredo Galasso, al tempo della coraggiosa decisione del giudice Paola Protopisani, aveva dichiarato: “Il risultato della vicenda processuale rende giustizia per l’ultratrentennale tortura della goccia che i parenti delle vittime hanno dovuto subire ogni giorno anche a causa dei numerosi e comprovati depistaggi di alcuni soggetti deviati dello Stato”.
USTICA BIS. Il 17 aprile ci sarà un’altra udienza dell’Ustica bis aperto per le richieste risarcitorie di altri 40 familiari delle vittime, mentre un altro troncone – Ustica ter – è in procinto di arrivare nell’aula del tribunale civile. Respingendo il ricorso dell’Avvocatura, quindi costringendo lo Stato al maxirisarcimento, la Cassazione ha anche messo un punto definitivo sulla strage di Ustica: fu un missile, scrive la Corte con la sentenza 1871, ad abbattere il Dc9 dell’Itavia, accogliendo l’impianto della sentenza della Corte d’appello di Palermo che aveva accolto le richieste di risarcimento. “Non è in dubbio che le Amministrazioni avessero l’obbligo di garantire la sicurezza dei voli” scrive la Cassazione a proposito di Difesa e Trasporti. Al momento, quindi, c’è il corpo del reato, il missile, ci sono anche i risarcimenti per chi ha subito la perdita dei propri cari, ma manca ancora la cosa più importante: il nome dell’assassino.
di Salvatore Maria Righi per l’Unità del 16 aprile 2013 [link originale]