È uno spiraglio. L’ultima possibilità concessa a chi dopo 37 anni testardamente ancora indaga. Provarci non è solo un dovere di giustizia, è una necessità storica. La nazionalità del caccia (dei caccia) che la notte del 27 giugno 1980 provocò l’abbattimento del DC9 Itavia e la morte di 81 italiani a bordo è stato uno dei segreti meglio custoditi della nostra storia recente. Tuttavia, dopo anni di stallo, un estremo tentativo per arrivare alla verità sembra si possa ancora fare.
Ne è convinta la Procura di Roma, dove si concentrano gli sforzi del procuratore aggiunto Maria Monteleone e del sostituto Erminio Amelio per cercare di riempire coi colori di una bandiera l’ultimo miglio di un’indagine che ha ormai certificato un’intercettazione da parte di caccia non identificati che inseguivano caccia nemici e hanno sbagliato obiettivo centrando l’aereo di linea. Un’azione di guerra in tempo di pace, che nasconde l’inconfessabile verità di una strage che ha segnato la più grave violazione della nostra sovranità nazionale.
Il volo IH870 da Bologna a Palermo è stato ricostruito istante dopo istante. E i magistrati non hanno più alcun dubbio: dopo il decollo e prima di Firenze, il DC9 fu agganciato da almeno un caccia non identificato (libico?) che voleva sfruttare il suo segnale radar per sfuggire al sistema della Difesa aerea. Ed è accertato anche che, proprio sull’Appennino tosco-emiliano, l’aereo di linea e il caccia che lo seguiva furono incrociati da un intercettore F-104S della base di Grosseto con a bordo i due ufficiali piloti Ivo Nutarelli e Mario Naldini, deceduti qualche anno dopo in una tragica esibizione delle Frecce Tricolori a Ramstein, in Germania.
Secondo la ricostruzione che era già stata fatta nel 1999 dal giudice istruttore Rosario Priore e fu confermata formalmente dalla Nato, Nutarelli e Naldini videro il caccia intruso e segnalarono in due modi diversi l’allarme rientrando alla base. Se ne resero conto anche nella postazione radar di Poggio Ballone, a nord di Grosseto (pochi anni dopo il controllore alla consolle Alberto Dettori fu trovato impiccato e il suo capo Maurizio Gari morì stranamente d’infarto). Ma nessuno pensò di avvertire i piloti del DC9, che continuarono il loro volo sul Tirreno verso Palermo senza rendersi conto di ciò che stava accadendo intorno.
Caccia decollati dalla base francese di Solenzara in Corsica, tracciati proprio dal radar di Poggio Ballone, puntarono decisamente verso il DC9 che viaggiava nel cielo sulle isole di Ponza e Ustica. C’era anche un aereo radar Awacs sull’isola d’Elba (americano?), che poteva controllare agevolmente fino a quel punto. Ma quello che accade nell’ultimo miglio di questa ricostruzione non è mai stato possibile determinarlo con esattezza perché carte, registrazioni radar ma anche testimonianze italiane e delle forze internazionali in campo (gli americani della Sesta Flotta che si trovava davanti al porto di Napoli) furono negate con scuse in alcuni casi ridicole o inverosimili oppure palesemente manipolate o distrutte.
Eppure qualcosa potrebbe essere rimasto. Ed è grazie a questo spiraglio che l’inchiesta, che solo un anno fa marciava verso l’archiviazione, ha ripreso forza. La novità ruoterebbe proprio intorno alle presenze navali e aeree di quella sera. Prima di morire, il presidente emerito Francesco Cossiga (nel 1980 era a capo del governo, con tutti gli strumenti a disposizione per conoscere la verità) accusò la Francia: l’operazione finita male mirava ad eliminare il colonnello Gheddafi, disse, che in quel momento era il nemico numero uno dell’Occidente e soprattutto dei francesi. In effetti, il 18 luglio di quell’anno un Mig libico fu ritrovato sulla Sila e l’autopsia stabilì che il pilota era morto da almeno tre settimane. Ma Parigi smentì ogni coinvolgimento e la conferma che quella sera la base di Solenzara era operativa arrivò solo due anni fa, dopo una serie di bugie.
I resti del DC9 sono in un museo di Bologna, dove la presidente dell’Associazione dei familiari chiederà oggi al governo di costringere le istituzioni a consegnare tutte le carte ancora chiuse nei cassetti, sulla base dell’atto di desecretazione del materiale relativo alle stragi firmato da Matteo Renzi quando era a Palazzo Chigi. E mentre qualcuno cerca ancora di accreditare come causa dell’esplosione la tesi di una bomba nella toilette dell’aereo (che è stata ripescata intatta), lo Stato sta cominciando a fare i conti per ottemperare alle sentenze della Cassazione che hanno certificato l’abbattimento del DC9 da parte di un missile e condannato i ministeri della Difesa e dei Trasporti a risarcire le famiglie. Trentasette anni senza verità, soprattutto senza colpevoli, sono tanti e indignano. Ma lo spiraglio che ora si è aperto può segnare una svolta e tingere quell’ultimo miglio coi colori di una bandiera, consegnando finalmente questa vergogna nazionale alla storia.
di Andrea Purgatori [link originale]
E ci risiamo col suggerimento dello scenario libico!
La Procura di Roma ha avuto la possibilità di accertare che tipo di aereo era quello rinvenuto a Castelsilano, ma ha inopinatamente trascurato il mio esposto sul possibile recupero della cloche. Dunque? È il solito “spiraglio” del giorno dopo l”anniversario?
“che ha ormai certificato un’intercettazione da parte di caccia non identificati che inseguivano caccia nemici e hanno sbagliato obiettivo centrando l’aereo di linea. ”
come fanno ad essere sicuri che l’obiettivo non fosse proprio il DC9?
Restando sempre nell’ambito di un libero e sincero dibattimento di pura e semplice osservazione:
nell’anno 1980 dei nostri tristi fatti, il colonnello Gheddafi forse rappresentava l’alleato più utile e importante di tutta la Storia d’Italia.
Pertanto attentare alla Sua vita e addirittura proprio sulle ignare teste degli stessi Italiani sarebbe stato più di una mezza dichiarazione di guerra nei confronti della Repubblica d’Italia da parte di qualsiasi Nazione che avesse osato farlo.