E’ il muro che si è trovato di fronte anche Claudio Gatti, inviato speciale del Sole 24 Ore, che ha provato a bussare alla porta degli archivi dei Servizi credendo che dopo 30 anni qualcuno gli avrebbe dato l’opportunità di fare il suo lavoro, cioè cercare la verità e possibilmente raccontarla. Come spiega lui stesso, in un pezzo pubblicato lo scorso 12 luglio, ha trascorso gli ultimi tre anni “facendo richieste e avendo incontri con la controparte negli apparati dello Stato per definire insieme l’istruttoria dell’istanza di accesso agli atti”. Lo ha fatto avvalendosi di una legge dello Stato, la 124 del 2007, con cui sono stati riformati gli apparati di sicurezza, in particolare l’articolo 39 (comma 7 e 8 ) che regola la “disciplina del segreto”. La legge è chiarissima: “decorsi quindici anni dall’apposizione del segreto di Stato o, in mancanza di questa, dalla sua opposizione confermata ai sensi dell’articolo 202 del codice di procedura penale, come sostituito dall’articolo 40 della presente legge, chiunque vi abbia interesse può richiedere al Presidente del Consiglio dei ministri di avere accesso alle informazioni, ai documenti, agli atti, alle attività, alle cose e ai luoghi coperti dal segreto di Stato“. Formalizzata la richiesta, prosegue lo stesso articolo: “entro trenta giorni il Presidente del Consiglio dei ministri consente l’accesso ovvero, con provvedimento motivato, trasmesso senza ritardo al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, dispone una o più proroghe del vincolo. La durata complessiva del vincolo del segreto di Stato non può essere superiore a trenta anni“. Ma dopo anni d’incontri, lettere, e-mail e telefonate delle 13 diverse richieste presentate dall’inviato del Sole 24 Ore (dalla strage di Ustica al ruolo di Ordine Nuovo) non una è stata accolta favorevolmente dal Dipartimento informazioni per la sicurezza, cioè l’organismo – guidato dal prefetto Gianni De Gennaro – che sovrintende e coordina l’intera attività di informazione svolta dall’Aisi (l’ex Sisde) e dall’Aise (l’ex Sismi).
Gatti non si è arreso e con l’aiuto dell’avvocato costituzionalista Vittorio Angiolini, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Milano, ha presentato un ricorso al Tar del Lazio proprio contro il Dis. Un segreto è tale e – manco a dirlo – il ricorso del giornalista è stato respinto dalla giustizia amministrativa con una motivazione che Gatti stesso ha definito “kafkiana“. Sostanzialmente nella sentenza di cinque pagine (n. 5638/11) , depositata lo scorso 24 giugno, il Tar ha definito la sua richiesta di accesso ai documenti classificati troppo vaga e «meramente esplorativa». E per capire meglio in che Paese viviamo, e che valore ha il segreto di Stato, bisogna leggerla tutta, fino in fondo. Il Tar specifica che Gatti nella sua istanza «non ha semplicemente richiesto di consultare gli archivi del Dis, al fine di ricercare ed estrarre il materiale di proprio interesse, bensì ha domandato l’accesso a documenti determinati, a suo dire facilmente individuabili in ragione dell’indicazione dei fatti e delle persone a cui gli stessi si riferiscono, con l’ulteriore elemento rappresentato dalla circostanza che, in ordine agli stessi, sia venuta meno ogni classifica di segretezza». Cioè, chiedendo di applicare la legge, ha indicato alla Presidenza del Consiglio la lista dei documenti di cui aveva bisogno per svolgere il suo lavoro. Circostanze precise, nomi e fatti. Nulla di più. Un sistema che negli Stati Uniti funziona, ed è per giunta regolato dal Freedom of Information Act che autorizza i giornalisti a consultare i documenti declassificati. In Italia, a leggere l’articolo 39 della legge 124, potrebbe sembrare altrettanto agevole, ma così non è. Tuttavia per il tribunale amministrativo la richiesta del giornalista è «meramente esplorativa avendo egli fornito, in realtà, solo elementi di carattere generale (in pratica la sola cornice storico-fattuale) per l’individuazione dei documenti di proprio interesse». Un esempio: conoscere, essendo passati giusto 32 anni, ulteriori elementi, sotto forma di documenti in possesso dei Servizi, sull’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Di meramente esplorativo c’è ben poco, si tratta di rintracciare i fascicoli, applicare la legge e consentire a Gatti di consultarli. E’ troppo faticoso. Per il Tar: «in tal modo, egli (Gatti, ndr) finisce per ribaltare sull’amministrazione l’onere di selezionare una documentazione, la quale, per sua natura, è certamente avvinta da connessioni e interrelazioni che solo l’attività di “intelligence” può effettivamente individuare». Perciò non è possibile «costringere l’amministrazione ad una complessa attività di elaborazione, ricostruzione e incrocio di una rilevante mole di informazioni, al fine di estrapolare da un corpo di documenti (che, nella fattispecie, il ricorrente apoditticamente assume “già di per sé selezionato e organizzato”) quelli, solo presumibilmente, corrispondenti all’interesse dell’istante».
Siamo al paradosso. Il Tar per Gatti “è come se avesse determinato che per chiedere un documento segreto (e in quanto tale sconosciuto al richiedente) occorre fornirne data e numero di protocollo”. Gatti, quindi, potrà soddisfare la sua curiosità «attraverso la consultazione diretta dei documenti presenti negli archivi». Quando? “Formalmente – chiosa l’inviato del Sole 24 Ore nel suo articolo – il Tribunale regionale non ha negato il principio di trasparenza introdotto dalla 124. Anzi, ha rigettato il concetto di «permanente inaccessibilità dei documenti degli Organismi informativi». Ma ha spiegato che «tali documenti… sono destinati al versamento presso l’Archivio Centrale dello Stato e in tale sede saranno resi disponibili per le esigenze degli studiosi e degli storici». In altre parole, non siamo stati bocciati. Solo rimandati. Alle calende greche.”
di Fabrizio Colarieti per cadoinpiedi.it (link originale)