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La Fiat dal Sismi per il Mig libico / Il Manifesto

Mig-libico

Mig libico

«I due consiglieri di Lafico (Libyan Arab Foreign Investment Company, ndr) in Fiat erano Abdullah Saudi e Regeb Misellati. Li avevo sentiti, naturalmente, subito dopo l’incidente di Ustica. Incidente, poi…Temevamo tutti fosse stato un missile. Uno sconfinamento, una battaglia segreta nei cieli, l’arma che parte e colpisce l’aereo civile. Ne parlammo. Mi rassicurarono.» Per concedere la propria memoria Cesare Romiti, ex amministratore delegato del gruppo torinese, aspetta di essere sollecitato. E’ il 23 febbraio 2011, di fronte a un momento storico come la caduta e morte del colonnello Gheddafi, rivela al Corriere della sera che in effetti in Corso Marconi si erano insospettiti sulle sorti del Dc9 Itavia. Un sospetto in controtendenza con le informazioni istituzionali date in pasto all’opinione pubblica, che nei giorni successivi alla disgrazia parlavano solo di cedimento strutturale. 

Romiti viene pungolato dalla giornalista Raffaella Polato: gli ha creduto, quando l’hanno rassicurata? E lui, serafico, risponde: «So che qualche settimana più tardi si scoprì il caccia libico caduto in Calabria. Misellati mi richiamò… volevano, dovevano recuperare i resti dell’aereo. E ci chiedevano una mano.»

Pausa. Prima di riprendere l’intervista, è opportuno dare uno sguardo d’insieme al caso Fiat-Libia che in quelle poche parole dell’ex amministratore sembra rivelare subito il doppio binario su cui viaggia: business e informazioni.

Gheddafi aveva cacciato gli italiani dal paese nel settembre del 1970. Tuttavia, nel 1976 decide di entrare nell’azionariato dell’azienda torinese con una partecipazione importante, un 10% che arriverà alla fine oltre al 15%. Per la Fiat è un’iniezione di capitale vitale. E’ anche una mossa che infastidisce stakeholders e istituzioni, nazionali e internazionali. La Libia non è ancora stato canaglia ma è sotto osservazione americana, tanto che Agnelli sente il bisogno di chiedere il permesso a Bush senior, allora direttore della Cia, per concludere l’affare.

E tuttavia, l’innesto di capitale non salva Corso Marconi dalle difficoltà. Nel 1980, ed esattamente il 21 giugno – sei giorni prima della strage – Umberto Agnelli in qualità di presidente annuncia che a ottobre si procederà a licenziare 15 mila dipendenti. Lo stato di salute del gruppo è pessimo secondo Alan Friedman, che scrive: «Nel 1980, quando Romiti ne assume il controllo, la stessa sopravvivenza della Fiat è in discussione». E calcola che, nei bilanci in rosso da anni, siano segnati debiti per settemila miliardi di lire.

Diego Novelli, sindaco di Torino, dirà poi che l’annuncio lo colse di sorpresa: tre mesi prima, a marzo, Umberto gli aveva chiesto di intercedere presso i sindacati perché l’azienda aveva molte richieste e aveva bisogno di straordinari. E Romiti lo aveva pregato di sollecitare il “collega” di Rivalta per ottenere una variante al piano regolatore e ampliare quello stabilimento. Lo scontro tra direzione aziendale e sindacati si inasprì fino all’autunno, all’occupazione di Mirafiori, con Enrico Berlinguer tra gli operai. Fino all’accordo conclusivo con migliaia di ore di cassa integrazione.

Fin qui, la Fiat come potenza economica. Nel frattempo, il Dc9 è caduto e tre settimane più tardi si annuncia la scoperta di un Mig23 libico sulla Sila. E da qui concentriamoci sulle informazioni.

Torniamo a Romiti e alla telefonata di Misellati, consigliere Lafico nel Cda di Corso Marconi. I dubbi che il Mig sia davvero caduto il 18 luglio sono tuttora in piedi. In quel periodo, Tripoli e Roma sono in fase di schermaglie. Come spiegherà bene più tardi il sottosegretario Giuseppe Zamberletti, l’Italia era alle battute finali della trattativa per sottrarre Malta all’influenza libica e Gheddafi non era affatto d’accordo. In questo clima di tensione, il numero uno di Fiat si precipita nell’ufficio del direttore del Sismi, Giuseppe Santovito, perorando la restituzione celere del Mig alla Libia. Lo ammette Romiti nell’intervista, lo aveva già detto ai giudici Francesco Pazienza, all’epoca consulente di Santovito. L’episodio è inconsueto di per sé ma lo è ancora di più considerando che l’incontro avviene senza alcuna intermediazione: il manager direttamente dal capo dello spionaggio militare.

Come era nato il sodalizio tanto intenso da meritare la richiesta di un favore agli 007 e tanto corretto («sembrano banchieri svizzeri» disse Agnelli) da essere afferrato al volo nonostante i dubbi del resto dell’Occidente? Sentiamo Romiti: «Un giorno venne da me Nicolò Gioia, era stato direttore generale Fiat, era in pensione, ma continuava a girare per il mondo», aveva contatti a Tripoli e riferì dell’interesse libico a investire nel gruppo. Ma chi è esattamente, Nicolò Gioia? Oltre a essere un gran viaggiatore, è uno degli uomini Fiat che furono condannati (anche se tutto finì poi in prescrizione) nel processo per le schedature dei dipendenti. I più giovani non lo ricorderanno, ma i vertici di Corso Marconi furono portati in tribunale negli anni Settanta dal pretore Raffaele Guariniello dopo che nell’archivio aziendale si erano scoperte 354 mila schede compilate dal servizio di informazioni interno, con l’ausilio di ufficiali dei carabinieri e funzionari di polizia compiacenti (uno di questi era Marcello Guida, trasferito poi alla questura di Milano). Come gli altri dirigenti, Gioia fu condannato in primo grado a due anni e tre mesi. Il che, come si vede, non gli impedì di fungere da intermediario per l’affare del secolo.

In quel processo Gioia era in compagnia, fra gli altri, di Mario Cellerino, pilota personale di Agnelli e dirigente all’epoca dei “servizi generali”, ovvero di sicurezza. Cellerino non era solo un pilota. Era un militare, anzi un militare piuttosto particolare. Era stato addetto militare all’ambasciata di Berlino durante la guerra, ma soprattutto era un ufficiale del Sios Aeronautica. Come ufficiale dei servizi segreti dell’arma azzurra si era portato in azienda parecchi colleghi, tutti coinvolti nel processo per le schedature.

Di questo processo si seppe, all’epoca, poco o niente. Del resto, è noto ai giornalisti italiani che nulla viene pubblicato sulla Fiat che la Fiat non voglia, o quasi. Friedman segnala, al proposito, i ricordi di un giornalista del Wall Street Journal per cui la sala stampa di Corso Marconi riecheggiava di comportamenti da Grande Fratello.

Le buone relazioni tra Corso Marconi e le barbe finte nazionali intanto si consolidano. Decapitato da Guariniello, il “servizio generale” viene affidato, a metà degli anni ‘70, a Giorgio Castagnola, già capo del Sismi piemontese. Colonnello dei carabinieri, Castagnola in Fiat è nominato coordinatore generale della sicurezza del gruppo. Tra i suoi compiti ci sono il controllo e la protezione delle tecnologie militari strategiche a cui la Fiat ha accesso grazie alle Commesse militari collegate alla Nato. Perché nel frattempo il gruppo torinese, che talvolta si muove come uno stato sovrano, tiene i piedi in varie scarpe. Se i finanziamenti arrivano da Tripoli, le commesse arrivano da Washington, ma anche dal grande affare sovietico, Togliattigrad, che permise a Mosca di passare da 200 a 800 mila veicoli l’anno (e a incamerare tecnologia).

Il rapporto con la Libia fu chiuso nel 1986 dopo il bombardamento di Tripoli, con un guadagno straordinario da parte di Gheddafi (il deputato di Democrazia Proletaria, Luigi Cipriani, sospettò irregolarità e presentò denuncia su quel riacquisto di azioni).

Tornando all’estate 1980 quando un Dc9 con ottantun italiani precipita in mare e un Mig si schianta sulla Sila, la Fiat aveva in casa notevoli risorse informative. Furono quelle risorse ad alimentare il sospetto di  “una battaglia segreta nei cieli”? Nessuno ha fatto in tempo a chiederlo a Romiti. 

di Daria Lucca, Paolo Miggiano per Il Manifesto 2 – continua

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