Il maresciallo Giuseppe Dioguardi oggi ha 53 anni, ha prestato servizio in Aeronautica fino al 2008. Alla scadenza del suo nullaosta di segretezza, il Cosmic, che è il livello più alto, è stato ascoltato da Maria Monteleone ed Erminio Amelio, i due magistrati della Procura di Roma che indagano sulla strage di Ustica. Parte dell’interrogatorio è ancora secretato, ma il maresciallo ha accettato lo stesso di raccontare quello che sa. E sa molto. Nei 33 anni che ha trascorso nell’arma azzurra e alla Difesa, in posizioni di estrema responsabilità e delicatezza, un filo rosso lo ha tenuto sempre agganciato, spesso da supertestimone, a questa storia. Fin da quella sera del 27 giugno 1980, quando si trovò nella sala operativa della Prima regione aerea a Milano. Esattamente negli istanti in cui il DC9 Itavia veniva abbattuto nel cielo di Ustica.
Come mai quella sera lei era nella sala operativa della Prima Regione aerea? “Per puro caso, ero andato a trovare un collega di turno”.
Quindi, seguì tutto in diretta? “Sì, fin dalla prima comunicazione della base radar di Monte Venda”.
Che cosa sentì? “Rimbalzavano notizie confuse. Non si capiva cosa era successo, dicevano che un aereo era stato abbattuto. C’era molta tensione. E appena l’ufficiale di servizio comunicò quello che stava succedendo al comandante della Regiona aerea, che all’epoca era il generale Mura, il Centro operativo dello Stato Maggiore da Roma alzò il livello d’allarme al grado più alto in tutte le basi italiane”.
Cosa che non accade per un semplice incidente aereo. “No. Quel tipo d’allarme scatta solo se c’è un pericolo concreto per la sicurezza del Paese. Che so, un attacco a una base o una minaccia dall’esterno al nostro spazio aereo. Per capirci, lo stesso allarme del giorno dei missili libici su Lampedusa o della notte di Sigonella”.
Dalla prima comunicazione all’allarme quanto tempo trascorse? “In quella situazione, la sala operativa della Regione aerea aveva un tempo massimo di cinque minuti per avvertire Roma. Faccia lei i conti”.
Che altro fece il generale Mura? “Chiese a chi non era in servizio di uscire subito dalla sala. Poi la mattina dopo, al circolo, mi chiamò e mi disse che bisognava stare sereni e tranquilli, che purtroppo erano situazioni che potevano capitare e che stavano cercando di capire chi aveva provocato cosa”.
Le comunicazioni che ascoltò erano telefoniche? “Certo. Ma dallo Stato Maggiore di Roma arrivarono anche messaggi classificati che vennero decrittati e letti”.
Cerchi di essere più preciso. “Non posso, i dettagli sono nelle parti dell’interrogatorio secretate dai magistrati. Diciamo che la confusione era provocata dal fatto che si sapeva che c’erano dei caccia in volo ma non la nazionalità, né la provenienza o la direzione. E comunque, un allarme c’era già prima dell’abbattimento…”.
Chi lo aveva lanciato? “I due piloti che poi sono morti nell’incidente delle Frecce tricolori a Ramstein nel 1986, Nutarelli e Naldini. Loro hanno incrociato il DC9 tra Bologna e Firenze e hanno visto quello che si muoveva intorno al velivolo civile… loro sono rientrati alla base di Grosseto segnalando il pericolo con la formula da manuale, attivando il microfono senza parlare. E tutte le sale operative delle tre regioni aeree, che sono collegate da una linea diretta, stavano cercando di capire. La fase più concitata è andata avanti per circa un’ora e mezza e l’allarme massimo è stato tolto solo dopo sette, otto ore”.
I radaristi militari di Ciampino hanno dichiarato negli interrogatori di aver visto dei caccia americani, hanno addirittura chiamato l’ambasciata per sapere qualcosa da loro. “Nella relazione del Sismi controfirmata da Spadolini si parlava di due Mirage, e all’epoca quei caccia li avevano solo i francesi, e di un Tomcat, che era un caccia imbarcato sulle portaerei americane”.
Possibile che nessuno dei nostri radar, ad eccezione di Ciampino, li avesse visti e identificati? “Mettiamola in questo modo. Quella sera c’erano dei siti radar aperti, che nel giro di due o tre anni da quell’evento sono stati chiusi, ufficialmente per un riordino interno. Uno addirittura dopo sei mesi. E chi ha indagato nella prima fase di questa inchiesta, o non ha saputo cercare i nastri radar giusti o non li ha voluti trovare”.
Ma quella notte, dopo la confusione, si capì come erano andate le cose. “Le dico di più. La mattina dopo, al circolo ufficiali, parlavano tutti dell’abbattimento. E siccome era un sabato, chi stava lì c’era perché aveva lavorato tutta la notte nella sala operativa o nei centri dove passavano le comunicazioni classificate”.
Si parlava di aerei italiani coinvolti, a parte l’F-104 di Nutarelli e Naldini? “No. E il loro coinvolgimento fu molto preciso. Vedere un caccia militare sotto la pancia di un aereo civile non è una cosa normale”.
Se per giunta non è italiano… “Il modello non era italiano. E quando non ci sono nemmeno coccarde che lo identifichino, fai fatica a non sganciare il pulsante d’allarme”.
Si fa fatica anche a non credere che almeno una base radar lo abbia visto entrare nel nostro spazio aereo. “Probabilmente, lo hanno visto”.
E cancellato… “Probabilmente”.
Ma nessuno lo ha mai confessato. “Gliel’ho detto. Se eri un militare e avevi a che fare con un documento o un’informazione a qualunque livello di segretezza, da riservato a segretissimo a top secret che sia per quelli Nato, e le rivelavi rischiavi fino a venti anni di reclusione. Ora la norma è cambiata. Ma allora era così. E guardi, non sono state le minacce o gli ordini dei superiori, che pure ci sono stati, a tappare la bocca ai militari. Era la paura di andare in galera. Ma la gente sapeva, e le carte c’erano”.
E sono sparite per sempre, queste carte? “Io ho spiegato ai giudici che ogni documento ha una vita. Molti sono stati distrutti ma molti esistono ancora. Bisogna saperli cercare. Prenda il giudice Priore. E’ arrivato a cinque centimetri dalla verità, ma non ha trovato la pistola fumante. I suoi finanzieri non sono potuti entrare nelle segreterie speciali o nelle stanze o nei depositi dove c’erano le carte classificate, perché ci vogliono dei permessi che un magistrato non può dare. E se ci fossero entrati, non avrebbero saputo cosa cercare e come. Un registro di protocollo classificato non si distrugge mai nella vita. Ma bisogna trovarlo e poi saperlo leggere. E adesso prenda me. Dopo Milano sono stato otto anni a Roma nella segreteria particolare di sei ministri della Difesa, poi a Bari alla Terza regione aerea, sempre col nullaosta di sicurezza Cosmic che al mio livello in Italia avevamo solo in ventiquattro. Priore ha chiesto di interrogare i componenti della segreteria speciale ma il mio nome non è mai stato inserito nell’elenco che gli ha fornito l’Aeronautica. Sarà un caso?”.
Torniamo a Spadolini, a quella relazione segreta e alla sua sfuriata. “Era fuori di sé. Prima di firmare fece anche una telefonata, a cui però io non ho assistito”.
Ce l’aveva coi generali perché cercavano di giustificare politicamente quello che era successo? “C’era un tentativo di girare le carte. D’altra parte anche De Michelis parlò di carte sopra il tavolo e carte sotto il tavolo. All’epoca i generali di squadra aerea erano solo tredici e ciascuno di loro aveva una linea telefonica diretta con un apparecchio criptato che comunicava con le altre dodici, una specie di teleconferenza via Skype ante litteram. Qualunque decisione dovevano prendere e presero, lo fecero insieme, in tempo reale”.
Mai nessuno fuori dal coro? “Il generale Moneta Caglio. Era un giorno di Pasqua. Vado a Roma a discutere questa faccenda, mi disse. Prese la macchina, andò a casa del capo di stato maggiore, ci fu una lite violentissima e lo misero in pensione con un anno d’anticipo”.
Non condivideva la linea sulla strage di Ustica? “Esatto. Chi ha gestito questa storia, chi era in determinati posti di comando e controllo, ha fatto carriere inimmaginabili. Generali che sono diventati capi di stato maggiore e sottufficiali che hanno avuto trasferimenti lampo in sedi dove c’era una lista d’attesa di quindici anni. Chi ha imbrogliato non è stata l’Aeronautica. È stato un numero ben preciso e ristretto di persone dentro l’Aeronautica. Gli altri ci hanno solo rimesso”.
Oppure sono morti. “Oppure. L’ultimo in ordine di tempo è stato il generale Scarpa. Tre anni fa”.
Trovato nella sua casa di Bari con la faccia tumefatta e una ferita alla testa. “Esatto”.
Aveva avuto a che fare con questa storia? “Diciamo che ci si era trovato vicino”.
Quando i piloti Nutarelli e Naldini sono morti nell’incidente di Ramstein, nessuno di voi si è fatto qualche domanda? “Come devo risponderle?”.
Non lo so. Ha fatto un sospiro. “Ecco. Ma mica è l’unico fatto strano”.
Per esempio? “Nessuno si chiede mai nulla sul povero generale Giorgieri”.
È stato ucciso dalle Brigate Rosse. “Era uno dei tredici generali di squadra, che erano tutti collegati fra loro. Era anche uno dei pochi che non aveva la scorta”.
In quelle pagine che hanno fatto infuriare Spadolini si parlava anche del Mig. “Era collegato”.
Perché anni dopo, terminata la sua audizione in Commissione stragi, disse: “Scoprite il giallo del Mig e troverete la verità su Ustica”. “E’ così. Glielo confermo al cento per cento”.
Di quella relazione non si è saputo mai nulla. Sparita. “Finché sono rimasto al ministero della Difesa a Palazzo Baracchini, una copia di quella relazione c’è sempre stata. E so da amici comuni che fu conservata per molto tempo anche dopo il 1988. Quando fui trasferito alla segreteria del comandante della Terza regione aerea a Bari e poi alla segreteria speciale del comandante di regione, anche nelle loro casseforti c’erano documenti su Ustica. Noi potevamo vederli, leggerli, avevamo il nullaosta giusto”.
Noi chi, scusi? “Noi della segreteria speciale, eravamo in otto e non dipendevamo da nessuno. La sera del 27 giugno, due di noi si trovavano a Monte Scuro, sulla Sila. Dove poi furono rimandati il 18 luglio a vedere ufficialmente i resti del Mig che avevano già visto segretamente il 27 giugno”.
Quella sera in cielo il Mig se l’erano perso o no? (pausa) “Non lo so”.
Però seppero subito dove era caduto. (pausa) “Non lo so”.
I magistrati le hanno chiesto perché ha aspettato tutti questi anni per raccontare quello che sa? “Certo. Lo dico anche a lei. Primo. Perché nel 2010 è scaduto il mio nullaosta di sicurezza e mi sono sentito finalmente una persona libera. Secondo. Perché in tutti questi anni, ogni volta che mi parlavano di Ustica mi sono sentito una merda”.
di Andrea Purgatori per Huffington Post [link originale]