Se dici Itavia a Tiziana Davanzali, figlia del patron Aldo, pensa a due telefonate. Quella del padre di 33 anni fa, nella casa al mare di Sirolo dove trascorreva una giovinezza agiata: «E’ caduto un aereo, la situazione è difficile». E quella di due giorni fa, dell’amico avvocato Mario Scaloni, che le dava finalmente la notizia della sentenza della Cassazione che riabilita la storia dell’Itavia, vittima di depistaggi. Tiziana ha rivolto un pensiero al padre, morto nel 2005, si è fatta dare un bicchiere d’acqua e ha sussurrato: «Ci distrussero, ora possiamo tornare a vivere tranquilli, nella verità».
Due volte l’anno, con la sorella Luisa partecipa alle rimpatriate degli ex dipendenti. Un migliaio nel 1980. Duecento sono rimasti in contatto, prima per telefono, poi con email, facebook e un blog, noidellitavia.it, 24 mila accessi in pochi mesi. Si ritrovano a pranzo in un hotel nella campagna laziale, scambiando ricordi, reliquie aziendali e fotografie «per tenere viva la memoria». «Una grande famiglia», spiega Tiziana. Raro trovare tale attaccamento a un’azienda, oltre trent’anni dopo e con tutto quello che è successo.
L’Itavia volava dal 1958 e nel 1980 copriva decine di rotte. Il patron Davanzali, partigiano bianco, rampollo di una rispettata famiglia borghese marchigiana, colto, brillante, adorato dai dipendenti e adulato dalle donne, stimato da politici e intellettuali, aveva visto lontano. Utilizzava Bologna come hub per le coincidenze con il Sud; puntava sui charter che l’Alitalia disdegnava; per utilizzare i velivoli anche nel weekend si accordava con i tour operator portando i pensionati tedeschi in Italia; in estate potenziava le rotte per le isole greche; per aumentare i ricavi vendeva a bordo bevande, oggetti di lusso e sigarette; per ridurre i costi di manutenzione e addestramento stava per cambiare la flotta, comprando solo Boeing 737. Come la Ryanair, ma molto tempo prima.
Possedeva anche alberghi (dove i dipendenti dell’Itavia soggiornavano gratis, per fare squadra), centri termali, rimorchiatori, aziende edili che lavoravano in Libia. Un patrimonio che oggi varrebbe 700 milioni di euro. E tanti amici. Una volta mandò un aereo ad Atene per riportare in Italia Andreotti, che aveva perso il volo di linea. A Roma lo si trovava a pranzo alla «Buca dei papi» con Guttuso.
Questo è il prima, che finisce il 27 giugno 1980 negli abissi di Ustica. Dopo, Davanzali si ribellò subito alla tesi del cedimento strutturale, veicolata anche dall’Aeronautica (memorabili le rivelazioni sui trascorsi delvDc9 nel trasporto del pesce hawaiano, con micidiali effetti corrosivi sulle lamiere). Aveva informazioni riservate e convinzioni profonde, corroborate da perizie accurate. Parlò di missile, fu incriminato per «rivelazione di notizie tendenziose ed esagerate», imputazione per la quale alla morte, 24 anni dopo, non aveva ricevuto comunicazione di proscioglimento.
Amici ed estimatori volatilizzati, improvvisamente si ritrovò tutti contro: volantini sindacali, interrogazioni parlamentari, rubinetti bancari chiusi, stipendi congelati, licenze ritirate, ostilità ministeriale, diciotto mesi di ispezione della Finanza, uffici sigillati, conti correnti bloccati. Ne nascerà un altro processo per presunti fondi neri all’estero: tutti assolti anni dopo, ma nel frattempo nel vortice dell’insolvenza erano finite, con l’Itavia, tutte le altre sette aziende di Davanzali, che morirà con soli mille euro di patrimonio. Da miliardario a nullatenente, a stento le figlie riuscirono a ricomprare la casa di famiglia ma era diventata troppo onerosa per una famiglia privata di ogni ricchezza.
L’Itavia esiste ancora nell’orgogliosa memoria di figlie, amici e dipendenti di Davanzali. Ma anche formalmente non è mai fallita. Sopravvive come azienda «temporaneamente commissariata» in attesa della conclusione delle cause di risarcimento contro i ministeri. Da 33 anni, come un fantasma che agita la coscienza della Repubblica.
di Giuseppe Salvaggiulio per La Stampa 24 ottobre 2013