Elisabetta, come Sally di Vasco, è una donna che non ha più voglia di fare la guerra. Elisabetta, come Sally, ha patito troppo, e ha visto cosa ti può crollare addosso. A lei è successo trentadue anni fa, nell’alba dell’estate e della sua giovinezza, mentre un aereo bianco e rosso spariva dai radar e veniva inghiottito, chissà come e chissà perché, nel blu del mare. Aveva 18 anni, Elisabetta Lachina, e la sua vita in un certo senso ha avuto un cedimento strutturale che, invece, nonostante quello che dicevano, non ha sicuramente avuto il Dc9 che è partito da Bologna, ma a Punta Raisi non ci è mai arrivato.
Per questo anche oggi, come tutti gli anni, si daranno appuntamento lei e gli altri che sono sopravvissuti alla strage, che ha vittime dirette ma anche quelle indirette, ossia chi resta e deve rimettere insieme i pezzi, accarezzare i ricordi e trovare un po’ di pace. Ancora una volta a Bologna, con la presenza del sindaco e con un bel programma di cose. Cioè nella città dove era cominciato tutto, nel giugno 1980, con un decollo slittato di due ore, beffarda metafora del ciclopico ritardo con cui – diciamo cosi – non abbiamo saputo quasi nulla, di quello che si doveva sapere. Le parole di Elisabetta sono un sentiero per entrare nel più inquietante dei misteri italiani.
Il 27 giugno 1980 a bordo del DC9 IH870 partito da Bologna destinazione Palermo c’erano mio padre Lachina Giuseppe e mia madre Reina Giulia.
Cominciano un po’ tutte allo stesso modo, le storie di quelli che su quell’aereo ci hanno lasciato un bel pezzo della loro vita, sotto forma di genitori, fratelli, sorelle o amici. Elisabetta, che col tempo è diventata donna e mamma, a volte non nasconde la fatica di andare in giro e raccontare tutto. Daccapo. Ancora una volta. Un pugnale che scava nel cuore. Capita a chi ha un dolore che non matura mai. “E’ come se i nostri cari non fossero ancora morti, e continuano a chiederci ininterrottamente la verità” ha detto Francesco Pinocchio, orfano di due fratelli salutati all’aeroporto di Bologna e mai più rivisti.
La mattina del 27 giugno 1980 mio padre telefonò a sua mamma che abitava a Caltanissetta: le telefonava ogni mattina per sentire come stava, era la prima cosa che faceva prima di iniziare la sua giornata lavorativa.
Apprese la notizia che suo cugino, che si era trasferito in Australia molti anni prima, tornava nella sua terra d’origine: la Sicilia.
Era incuriosito, desiderava sapere com’era quella terra così lontana attraverso i suoi racconti.
Decise frettolosamente di partire insieme a mia mamma, senza prenotare alcun volo, sapeva che all’aeroporto di Bologna c’era un volo per Palermo nel pomeriggio, andava spesso in Sicilia, era convinto di trovare posto.
Arrivato all’aeroporto di Bologna mi telefonò dicendomi il volo era al completo e che erano stati inseriti nella lista passeggeri; speravano nella rinuncia di qualcuno, altrimenti sarebbero andati all’aeroporto di Roma. Ebbero fortuna…
Presero il posto di due persone che senza saperlo non solo cedettero il loro posto in quel volo ,ma anche il proprio destino”.
Non è l’unica porta che si è aperta e richiusa sul destino, quella che racconta Elisabetta. Altre persone, come in uno Sliding doors da cui dipendeva la vita e la morte, sono salite o scese da quell’aereo dell’Itavia che secondo la Nato, in un documento ufficiale dell’alleanza, invece di un placido atterraggio dopo un altrettanto placido volo che chiudeva la giornata, si è trovato in mezzo ad un groviglio di 21 apparecchi militari di varie insegne e varie nazionalità. Non è una cosa accettata da tutti, questa, perché vorrebbe dire che le cose sono andate al contrario di come ci raccontano da sempre.
Se lo dite a Giovanardi, per dirne uno, sicuramente perde le staffe. L’ex ministro è uno di quelli che su Ustica non ha mai cambiato idea, sfidando quello che dicono i proverbi su chi resta marmoreo nelle proprie convinzioni. E, soprattutto, ne ha sempre parlato senza esserne mai stato nemmeno sfiorato, visto che non ha mai avuto nessun legame ufficiale con la strage. Un mistero quasi più grande di quello che successe la notte di 32 anni fa.
Avevo 18 anni mi sono trovata ad affrontare una situazione insostenibile, avevo perso ogni punto di riferimento, ero sola, abbandonata da tutto e tutti, in preda alla confusione e alla disperazione. Da quella sera la mia vita è cambiata, tutto ha cambiato completamente aspetto, in un attimo la mia famiglia non esisteva più.
Quindi c’è stato un altro punto Condor, in questa storia. Un altro, oltre a quello che ha inghiottito l’aereo, quella X sulla cartina del basso Mediterraneo, tra Ponza e Ustica, ufficialmente inesistente, perché non ci dovevano passare altro che apparecchi fantasma con insegne fantasma, per missioni fantasma. Un buco nero parallelo a quello tracciato dai militari per le loro manovre, in cui decine vite sono state risucchiate fino ai giorni nostri. Le vite di tutti quelli che sono rimasti a terra, a Bologna e a Palermo, ad attendere invano l’atterraggio del Dc9. Persone che hanno dovuto sintonizzare il proprio futuro su una, due, tre assenze definitive. Oppure calibrare la propria esistenza su quel trauma mai rimosso, come Elisabetta che dice “mia figlia è una figlia di Ustica”, quando parla di queste cose con le parole lente, ma la voce lenta, per tirarle fuori come aghi dalla pancia.
E quindi la immagini a immaginare l’esistenza parallela dei nonni che non c’erano, non ci sono mai stati, ma chissà che avrebbero detto, o chissà che avrebbero fatto, quante volte l’avrà pensato. Ustica è un viaggio all’indietro verso sagome che sfuggono, anche se le vedi. Come l’Awacs, acronimo di Airborne Warning Control System, l’enorme quadrireattore chiamato E-3A Sentry, così grande e potente che tre, uno sopra l’altro, coprono mezza Europa. La notte del 27 giugno 1980, una delle poche cose certe, una di queste cattedrali volanti che con l’elettronica e radar tutto vedono e tutto controllano era sui nostri cieli, più esattamente sulla dorsale appenninica, da Firenze a scendere verso Grosseto.
Il problema è sempre stato mettergli una targa, perché all’epoca non era in dotazione solo agli americani. Ma c’è un documento, di provenienza statunitense, che dimostra come gli Awacs fossero entrati in servizio già tra estate e inverno del 1980, prima delle date ufficiali. E che facevano la spola tra gli Stati Uniti e la base tedesca di Ramstein, in Germania, che in questa storia ha avuto fino adesso un ruolo forse molto sottovalutato. E’ la base americana dove il 28 agosto 1988 un tragico scontro in cielo tra tre MB399 delle Frecce Tricolori ha ucciso, oltre a tre piloti dell’Aeronautica, anche 70 persone, con centinaia di feriti.
Persero la vita in quel rogo Mario Naldini e Ivo Nutarelli, oltre al capitano Giorgio Alessio: entrambi erano in volo su un F104 la notte del 27 giugno 1980, nei pressi del DC9: per due volte squoccarono, così si dice, l’allarme generale senza utilizzare la radio di bordo: cosa videro sul cielo toscano, intorno o vicino al volo Italia? Volevano saperlo anche i magistrati che sequestrarono i registri del 4° stormo di Grosseto, pochi giorni prima della tragedia di Ramstein. Il passo successivo, dicono tanti, sarebbe stato convocare a Roma sia Naldini che Nutarelli. Ossia Pony 10, nel codice interno della PAN, in quel periodo uno dei migliori piloti acrobatici al mondo che però purtroppo, come ci ha detto l’Aeronautica militare, quel giorno di agosto sul cielo tedesco ha sbagliato tutto e ha involontariamente provocato quel disastro.
Lo scrive, l’AMI, in un rapporto che è rimasto praticamente top secret per 24 anni, nonostante gli accordi con Germania e Stati Uniti – ratificati anche dalle rispettive cancellerie – prevedessero una relazione trilaterale sull’incidente. Americani e tedeschi consegnarono subito il loro dossier, l’Italia no.
Nel documento, oltre a tutti gli allegati e alle foto, mancano anche le autopsie sui cadaveri dei piloti: non fu eseguito nessun esame medico legale, nonostante l’inchiesta condotta – e poi archiviata – dall’allora pm Paviotti, oggi avvocato a Udine. E nonostante sia praticamente obbligatorio eseguirle in casi anche molto meno gravi di quello.
Ho vissuto cercando di sopravvivere a questa tragedia; una tragedia che ha inciso fortemente sulla mia vita e che ha condizionato ogni mia scelta. E’ difficile accettare la morte dei propri cari se non si conosce cosa ha provocato la loro morte, non si è in grado di elaborare il lutto.
Sono morte 81 persone innocenti senza un motivo, senza un perché. 81 persone che a casa avevano dei familiari che li aspettavano, che li amavano…
Io, noi parenti delle vittime, stiamo aspettando da 32 anni di sapere cosa sia successo quella sera, perché, chi è stato?
Siamo in tanti che vogliamo conoscere la verità per poter seppellire dignitosamente i nostri familiari.
Siccome Ustica è un delitto senza colpevoli, ai familiari delle vittime non è rimasto che chiedere un congruo risarcimento. Il topolino partorito dal processo penale, senza colpevoli, si è infilato nell’alveo civile per “il risarcimento della negata verità, quel diritto di giustizia che dev’essere garantito ad ogni normale cittadino”, come dice l’avvocato Daniele Osnato a nome delle decine di famiglie che assiste davanti allo Stato, contro alcuni pezzi dello Stato.
Il tribunale di Palermo nel settembre 2011 ha condannato i ministeri dei Trasporti e della Difesa al pagamento di oltre cento milioni di euro ai familiari delle 81 vittime, ma l’Avvocatura dello Stato ha chiesto e ottenuto una sospensione: il processo è rinviato al 2015. Ed è stato derubricato in mezzo a decine di udienze in cui si discute di liti tra vicini o di tamponamenti stradali, mimetizzato nella caterva di faldoni che intasano le cancellerie e i tribunali, l’ultimo oltraggio morale di chi in molti casi non ha nemmeno potuto seppellire i propri cari, rimasti in fondo al mare come caduti di una guerra che nessuno sapeva, e tantomeno voleva, combattere quella notte.
Ogni volta che si parla della strage di Ustica la ferita che abbiamo nel cuore sanguina; ogni volta il nostro dolore si rinnova, siamo come intrappolati in questa costante ricerca di verità, soffocati dall’ingiustizia che ci avvolge, ma soprattutto schiacciati dal mare di bugie e menzogne che costantemente ti tolgono il respiro.
Certamente la sentenza del 10 settembre dove il giudice Proto Pisani ha condannato i ministeri per non aver garantito quella sera la sicurezza del volo ci ha ridato la verità, ma ancora oggi mancano i nomi dei colpevoli. Noi aspettiamo… e intanto il tempo passa…
di Salvatore Maria Righi, l’Unità del 27 giugno 2012 [link originale]