Capitolo III

Le relazioni tra la Libia e l'Italia.

1. Italia-Libia.

Uno degli interessi principali di questa inchiesta è costituito ovviamente nell'accertamento - per quanto possibile con gli strumenti dell'indagine giudiziaria - sui rapporti tra il nostro Paese - che, lo si ricordi, con nessun altro Stato raggiunse livelli così alti di conflittualità - e il dirimpettaio nordafricano.

Nel 69, a seguito della presa del potere da parte del Colonnello Muhammar Gheddafi, i rapporti tra l'Italia e la Libia subivano immediatamente una flessione, soprattutto a causa delle prese di posizione libiche nei confronti dei nostri connazionali colà residenti e delle industrie italiane che coprivano vasti settori, tra cui precipuo quello petrolifero. Tali rapporti subivano un ulteriore aggravamento dopo il 21 luglio 70, giacché in quella data il Consiglio del Comando della Rivoluzione promulgava tre leggi di capitale importanza, ai danni della comunità italiana; leggi che prevedevano la confisca di tutti i beni immobili e mobili degli italiani, e l'espulsione di tutti i membri della comunità. Espulsione che fu completata nell'arco di tre mesi, cosicché il leader libico il 1° settembre del 70 poteva annunciare al popolo libico che l'allontanamento degli italiani dalla Libia era concluso. Rimase in Libia solo una piccola comunità di lavoratori indispensabile per gli interessi libici.

Vani furono i tentativi della diplomazia italiana di ricucire lo strappo con Gheddafi, cosicché il Governo dava mandato al SID - diretto, a quel tempo, dall'ammiraglio Eugenio Henke al quale sarebbe subentrato poco dopo il generale Vito Miceli - di aprire i contatti con il Servizio libico. Incarico che veniva affidato alla 2ª Sezione del Reparto D, all'epoca diretta dal colonnello Roberto Jucci, il quale aveva avuto rapporti con i libici già l'anno precedente, in una missione che avrebbe consentito l'evacuazione di numerosi connazionali dalla Libia, molti dei quali ristretti in carcere.

I risultati di questi contatti non tardarono a dare frutti. Nella primavera del 71 il SID sventava una iniziativa di esuli libici, organizzata all'estero con il concorso del Servizio britannico e con base logistica a Trieste, tendente a sovvertire il regime di Gheddafi, nota come "Operazione Hilton". In particolare su segnalazione del SID, il 22 marzo di quell'anno, veniva bloccato nel porto di Trieste uno yacht, battente bandiera panamense, a bordo del quale venivano rinvenuti oltre ad un equipaggiamento militare, anche "14 spolette composte da 14 accenditori e da 14 capsule contenenti fulminato di mercurio e due accenditori elettrici ... congegni idonei all'innesco di esplosivo ad alto potenziale." (v. sentenza Tribunale di Trieste, 17 maggio 71). Questo tentativo seguiva quello fomentato dal "Principe Nero", Abdullah ben Abid Senussi, nipote del deposto Re Idriss. Gli insorti sarebbero dovuti arrivare dal Ciad ed un corpo di mercenari stranieri sarebbe dovuto giungere all'aeroporto di Sebha per appoggiare il governo provvisorio. Ma il complotto fallisce grazie alle informazioni che nel frattempo erano giunte ai servizi di sicurezza libici.

Si può senz'altro affermare che questa operazione sancì il legame tra il SID ed il Servizio Libico, a quel tempo diretto da El Huni e che avrà per anni in Italia come rappresentante Mousa Salem El Haji, che ha tenuto, nel tempo, ottimi rapporti con il Servizio Militare, prima con il colonnello Jucci, poi con il colonnello Minerva ed infine con il colonnello Sasso del Centro IV del Raggruppamento Centri del Controspionaggio di Roma. (v. esame Viviani Ambrogio, PM Roma, 03.12.87).

2. Le trattative italo - libiche.

L'esito positivo dell'operazione Hilton e la conseguente eco favorevole diffusasi negli ambienti libici, favorì le intese tra i due governi. Il Ministro degli Esteri libico, infatti, accettò di conseguenza di incontrare in Turchia il nostro Ministro degli Affari Esteri, l'on.le Aldo Moro; incontro al quale seguì quello ufficiale, a Tripoli, nel maggio dello stesso anno con la dirigenza libica. A seguito di questi incontri iniziarono, parallelamente, le trattative per la vendita di materiale bellico alla Libia e altri prodotti industriali contro accordi petroliferi.

Queste ultime trattative portate avanti dall'ENI furono favorite dalla concessione di aiuti militari alla Libia che videro la mediazione, su incarico della Presidenza del Consiglio, dell'allora colonnello Jucci, e che suscitarono, probabilmente, contrasti all'interno del Governo. Difatti, in un appunto del Servizio n.08/74/2A dell'11.05.72 si rileva che il Ministro degli Esteri Moro, preso atto che il colonnello Jucci aveva avuto incarico di rappresentare la Presidenza del Consiglio per definire gli accordi sulle forniture militari a quel Paese, annotava, su un appunto a lui sottoposto sulla vicenda: "tutto questo è stato fatto senza che ne sapessimo nulla (copia per i miei atti personali)". Nell'ultimo paragrafo dell'appunto l'estensore concludeva sottolineando che "si intravede in tutta la questione una certa frizione fra Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, in un quadro generale di "sovvenzioni" da parte di grossi complessi industriali ai partiti". A quel tempo Presidente del Consiglio era l'on.le Giulio Andreotti, mentre Ministro degli Esteri, come si è già visto, era l'on.le Aldo Moro; ma solo fino al 25 luglio, in quanto quel primo Governo Andreotti cadeva il 26 giugno ed il subentrante secondo Governo Andreotti entrato in carica il successivo 26 luglio non vedeva la partecipazione, nel Gabinetto, dell'on.le Moro.

A tal proposito il generale Michele Correra, Capo dell'Ufficio Ri.S del SID, interrogato sui contenuti dell'appunto di cui sopra dal PM di Roma, nell'ambito di procedimento penale relativo alla vendita di armi alla Libia, dichiarava: "che effettivamente vi erano state delle difficoltà da parte dell'allora Ministro degli Esteri (on.le Aldo Moro) per la decisione di inviare i veicoli M113 in Libia. Il Ministro suddetto preferiva cedere materiale d'armamento di produzione italiana", e per quanto riguarda le "sovvenzioni". "Mi era stato detto che, sulle forniture di petrolio dalla Libia all'Italia, l'ENI ... dava una tangente dello 0,5 oppure dello 0,6 per cento sul valore complessivo delle forniture ad esponenti della Democrazia Cristiana".

La vendita di armamenti alla Libia ebbe l'assenso anche degli USA per la parte relativa all'armamento prodotto dalle industrie belliche italiane dietro autorizzazione degli USA; almeno fino al 74, anno in cui si aggravò la tensione tra la Libia e gli USA a causa della nazionalizzazione da parte della Libia delle società petrolifere americane, a cui farà seguito, per ritorsione, l'embargo da parte degli USA delle forniture militari alla Libia.

L'accordo petrolifero tra l'ENI e il Governo libico che prevedeva una partecipazione libica negli utili al 50% fu siglato il 29 settembre 72 e di conseguenza l'Italia divenne l'unico Paese ad avere la parità con il Governo libico nello sfruttamento delle risorse petrolifere.

E' lo stesso colonnello Jucci - nel corso del dibattimento relativo alla querela presentata dall'ufficiale nei confronti del giornalista Mino Pecorelli, per offesa della la sua reputazione con un articolo diffamatorio - ad illustrare sinteticamente il ruolo svolto: "dal 1969 al settembre 1972 essendo in tale periodo prima al SID poi per incarico specifico, che ho ricevuto dal mio Stato Maggiore, effettuai numerose missioni in Libia, i cui risultati possono sinteticamente indicarsi nel fattivo contributo alle operazioni di rimpatrio dei nostri connazionali, alla liberazione dei nostri connazionali colà detenuti, allo stabilimento di accordi di carattere economico tra i due Paesi, nonché alla definizione del contenzioso fra i Paesi medesimi. In questa vicenda vi fu una fornitura di armi, da parte della società italiana Oto Melara, mentre da parte dello Stato libico vi fu la rinunzia alla nazionalizzazione delle attività estrattive dell'ENI in quel territorio con la costituzione di una società italo-libica al 50% circa" (v. verbale di udienza, Tribunale di Roma 15.03.77).

A tale riguardo, l'on.le Giulio Andreotti, nel corso dell'audizione resa nel novembre 82 innanzi alla Commissione Parlamentare d'inchiesta sulla Loggia P2, dichiarava: "Il colonnello Jucci, adesso generale, aveva lavorato nei Servizi e si era occupato anche di un problema particolare della Libia una volta che doveva partire una nave da Venezia (v. rectius Trieste; nde), se non ricordo male, carica non tanto di merci, quanto di qualcosa che doveva procurare guai alla persona di Gheddafi. Allora fu dai Servizi sventata questa operazione e questo fu personalmente fatto dal colonnello Jucci. Successivamente quando vi fu una situazione difficile - una delle tante ricorrenti - nei rapporti tra l'ENI e la Libia, il Presidente dell'ENI domandò a me se potevamo fare un appoggio di carattere politico per questi rapporti tra l'ENI e la Libia; io dissi che si poteva utilizzare un certo credito di benemerenza, nei confronti di Gheddafi e dei Servizi libici, che vi era stato per quella operazione. E il Presidente dell'ENI chiese a me, Presidente - che, a mia volta, feci dare l'autorizzazione di carattere militare - per essere accompagnato in Libia dal colonnello Jucci, in una di queste conversazioni, per cercare di rimuovere lo stallo che vi era nei rapporti tra l'ENI e la Libia" (audizione on.le Giulio Andreotti, Commissione parlamentare sulla loggia P2, 11.11.82).

Illuminante, in tal senso, è stata la testimonianza del colonnello Sasso già al Servizio ed oggi in pensione, il quale fino all'85 ha diretto il Centro CS di Roma, che aveva competenza, tra l'altro, sulla Libia. Questo ufficiale, oltre a confermare di avere ricevuto dai libici un omaggio, consistente in una collana un bracciale ed un anello, ha dichiarato, relativamente agli aiuti militari forniti alla Libia, di aver conosciuto, nel 70 a Roma, l'esule libico Omar Yehia, presentatogli da ufficiali statunitensi, esule che era riuscito a trasferire all'estero ingenti somme di denaro; e di aver presentato costui al colonnello Minerva, che, a sua volta, lo mise in contatto con il Direttore del SID, Miceli. Scopo dei contatti era quello di ottenere, per il tramite di Yehia, la collocazione in Libia di armi provenienti dall'industria italiana in cambio di greggio a prezzi vantaggiosi. A tal proposito riunioni si erano tenute presso l'ufficio di Yehia sito in via Massimi. A queste riunioni parteciparono vari ufficiali del SID, tra i quali lo stesso Sasso e Minerva. Nel riferire queste circostanze l'ufficiale aggiungeva di avere visto in visita allo studio di Yehia, il cardinale Valentini e l'on.le Andreotti (v. esame Sasso Aldo, GI 19.03.97).

Imponenti gli affari legati alla vendita di materiale bellico alla Libia. E' possibile rilevare la vendita di questo materiale da un documento del S.I.S.MI, così come trasmesso dall'AG di Venezia:

Tale intensità di vendite si commenta da sola.

3. La Libia ed il terrorismo internazionale.

I rapporti tra i due Servizi, alla fine di queste contrattazioni, rientrarono nella normalità, e il SID continuò comunque l'attività di controspionaggio nei confronti dei fuoriusciti libici, nell'interesse del Governo libico e su direttive politiche finalizzate alla tutela dei connazionali in Libia, delle forniture di petrolio, delle ditte e dei lavoratori italiani in Libia (esame Viviani Ambrogio, PM Roma 14.05.86).

Nel frattempo assumevano sempre maggiore intensità le voci secondo cui che il regime del colonnello Gheddafi sovvenzionasse il terrorismo internazionale con contributi economici e con la messa a disposizione in Libia di campi di addestramento, giustificando questa attività con la politica di assistenza a tutti i "movimenti di liberazione", che a prescindere dalla loro collocazione ideologica operavano a danni dei Paesi occidentali. Primo fra tutti l'OLP.

Le finalità di Gheddafi sulla Palestina sono state da una parte l'appoggio senza riserve alla causa palestinese, dall'altra i tentativi di colpire ed umiliare Israele con ogni mezzo. Motivo dell'avversione nei confronti di Israele non era tanto la nascita di per sé dello Stato ebraico, a seguito della dichiarazione di Balfour del 17 e quindi per effetto della risoluzione dell'ONU del 29.11.47 che consentiva la creazione dello Stato d'Israele in Palestina, quanto l'opposizione del leader libico agli ebrei non originari dell'area palestinese, giacchè essi avevano oramai perduto lo spirito di quei luoghi. Da qui l'appoggio libico all'ala più radicale della resistenza palestinese, anche se nel tempo non pochi contrasti sorgeranno con l'OLP.

Un interessante documento concernente un punto di situazione sulla Libia relativo al 1980 è stato rinvenuto e acquisito alla 1ª Divisione del S.I.S.MI. Nel documento si rileva che la Libia di Gheddafi istruiva i terroristi in campi di addestramento disseminati in zone desertiche. Il Servizio - vi si legge - aveva ricevuto notizie sull'esistenza di "24 campi di addestramento per la formazione e l'addestramento di guerriglieri di varie nazionalità con particolare riferimento a tunisini, palestinesi delle frange estremiste, sahariani, ciadiani e sudanesi. In misura minore: elementi del South West Africa People Organization della Namibia, marocchini, egiziani, algerini, zairoti, zimbawani, guineani e maliani. In 6-7 campi è stata talvolta segnalata la presenza di europei; in 1-2 campi quella di sud-americani e giapponesi. La presenza di italiani è stata segnalata in 6 campi, ma finora non è stato possibile acquisire elementi concreti di conferma per obiettive difficoltà di svolgere attività di ricerca nel paese. La durata dei corsi è variabile da 1 settimana a circa 1 mese (ad esempio campi di Ain El Beida e Joud ed Daim). L'addestramento verte principalmente sull'uso di esplosivi ed armi leggere e sulle tecniche del colpo di mano. In linea di massima, i campi presentano una "caratterizzazione geografica": in quelli della Tripolitania vengono addestrati dissidenti tunisini e marocchini ed elementi del Polisario; nel Fezzan elementi sudanesi, ciadiani e dell'Africa Nera; in Cirenaica dissidenti egiziani. Per quanto concerne l'addestramento di personale di altre regioni (specie europei) non emerge l'adozione di alcun criterio di base. Gli istruttori sono prevalentemente palestinesi o cubani. I libici addestrano in prevalenza tunisini. Operano però nei campi anche istruttori siriani, sovietici, pakistani, tedesco-orientali, spagnoli comunisti, scandinavi e irlandesi" (v. atti S.I.S.MI, decreto esibizione, 30.03.96).

4. La penetrazione libica in Italia.

Da questo documento si ricavano anche notizie concernenti il fenomeno delle penetrazioni libiche in Italia. Anche questa parte merita di essere riportata integralmente, giacchè fornisce uno spaccato sui tentativi di inserimento della Jamahirija nella realtà economica del nostro Paese, non disgiunti dall'interesse di Gheddafi di giungere così ad influenzare l'Italia: "a. il fenomeno della penetrazione libica in direzione di ambienti economici nazionali, caratterizzato dalla disponibilità da parte libica di acquistare beni immobili italiani, ha iniziato a manifestarsi dall'estate 1973. Risalgono a tale epoca i primi contatti di emissari libici con operatori italiani per l'acquisto nell'isola di Pantelleria e Lampedusa di terreni e strutture alberghiere. Successivamente l'interesse libico si è esteso ad altri settori ed ha fatto registrare il noto caso della partecipazione azionaria nella Fiat. In particolare, iniziative libiche al riguardo possono essere compendiate nel seguente quadro: - alcune società libiche hanno acquistato nell'isola di Pantelleria una vasta area di terreno con possibile destinazione all'edificazione di complessi turistico-alberghieri. Presso il comune di Pantelleria sono tuttora giacenti varie istanze affinché il nuovo piano regolatore, in via di adozione, autorizzi insediamenti turistici su richiesta di società e privati, sicuramente manovrati dai libici. Nella stessa isola è stato, inoltre, acquistato un complesso alberghiero già funzionante la cui gestione è stata assunta dai libici attraverso i dirigenti di una società maltese, anch'essa controllata da capitale libico; - l'interesse libico nell'isola di Lampedusa si è manifestato sotto forma di ricerca di insediamenti a scopo turistico con modalità di intervento analoghe a quelle dell'isola di Pantelleria; - altro interessamento libico è stato rilevato in direzione delle isole Egadi ed in particolare di Favignana, ma non risultano al riguardo stipulazioni ed acquisti. Dalle verifiche effettuate non è comunque mai emerso che tale forma di penetrazione sia stata utilizzata a fini eversivi.

b. riguardo ad altre iniziative libiche vanno evidenziate; - la cosiddetta "operazione Fiat", ampiamente pubblicizzata dalla stampa, che costituisce la massima manifestazione di penetrazione economica libica. Come è noto, i libici hanno acquistato una partecipazione azionaria di circa il 10%, ottenendo anche l'inserimento nel consiglio di amministrazione di due rappresentanti della "Libyan Arab Foreign Bank", istituto che rappresenta ufficialmente il capitale libico. L'operazione è inoltre collegata alla sottoscrizione, sempre da parte libica, di obbligazioni convertibili ed alla concessione di un prestito. L'affare Fiat-Libia, al di là delle oggettive incidenze sull'assetto finanziario della casa torinese, provocò, a suo tempo, negli ambienti economici nazionali, una pronunciata tendenza a ritenere allettanti forme consimili di intesa con i libici;- la cessione del 18% del pacchetto azionario della soc. "Valtur" di cui la Fiat detiene il controllo, verosimilmente conclusosi in Svizzera fra marzo e maggio 1977;- le notizie relative a trattative preliminari tra l'industriale Attilio Monti ed ambienti libici per la cessione di impianti di raffineria.Tali trattative sarebbero proseguite sino al luglio 1977, allorchè alcuni responsabili della S.p.a. Sarom (appartenente al gruppo Monti) si recarono a Tripoli; - l'interesse, non confermato, ad intese con la "SIR" (Società Italiana Resine) per la vendita di impianti petrolchimici con particolare riferimento a quello di porto Torres (1977);- le trattative con la "Montedison", che ha sempre intrattenuto rapporti commerciali con la Libia per acquisti di greggio e commercializzazione di prodotti petroliferi, ricerche di marketing, ecc., per consulenza nel settore chimico e petrolchimico, progettazione e realizzazione di opere. A suo tempo fu ventilata l'ipotesi della costituzione di una società con partecipazione minoritaria della Montedison; - notizie, non suffragate da ulteriori elementi di fatto, dell'avvenuta compartecipazione finanziaria tra il governo libico e la soc. "Rotos pompe officine consorzio elettronico" di Milano (settembre 1977); - voci raccolte nell'aprile 1978, finora non suffragate da risultanze, circa trattative per l'acquisto da parte libica dell'hotel "Hilton" di Milano; - cittadino libico ritenuto manovrato dal suo governo - per conto del quale avrebbe gestito operazioni nei settori economico, finanziario e commerciale - il 15.03.79 in sede di asta giudiziaria, ha acquistato, per oltre un miliardo e mezzo il complesso editoriale Sedis di Cagliari, società editrice del giornale "Tutto Quotidiano".

c. inoltre esiste una spiccata propensione dei libici in direzione della Sicilia, ove essi hanno sempre cercato possibilità di collaborazione con enti economici locali sia a livello privato sia a livello pubblico. Altre importanti forme di penetrazione (atipiche ma essenziali come armi di manovra sull'economia italiana) sono rappresentate: - ingente numero di rapporti di importazioni dall'Italia, instaurati sia dal governo libico sia dalle società libiche di importazione (società governative di rappresentanza); - rilevanti programmi di investimenti finanziari libici per insediamenti industriali in quel paese commissionati ad enti e società italiane, a partecipazione statale e private.

d. in conclusione, l'attività libica appare contraddistinta da:- ricerca diversificata degli insediamenti, laddove esistono le più adatte condizioni ambientali e, soprattutto, allorquando gli operatori nazionali si trovano in difficoltà per carenza di capitale;- notevole disponibilità di danaro fresco e tendenza a superare, a vantaggio dell'acquirente, difficoltà di natura finanziaria, il che porta a ritenere che l'esigenza di realizzare l'investimento prevalga, almeno entro certi limiti, sui puri aspetti di natura economica;- penetrazione sempre più frequentemente operata attraverso l'attività di privati cittadini libici che agiscono surrettiziamente sia acquistando pacchetti azionari di società per azioni italiane, al fine di assumere il controllo, sia avvalendosi di privati italiani quali loro prestanome, al fine di eludere la L.24.12.76, nr.898, come è avvenuto circa un anno fa in modo particolare nell'isola di Pantelleria".

Il documento conclude affermando che "allo stato attuale, è soprattutto emerso che l'attività in direzione dell'Italia è riconducibile per lo più ad azioni di penetrazione economica e finanziaria. Non si può comunque escludere che l'assistenza (economica, finanziaria ed addestrativa) possa essere fornita a gruppi eversivi e terroristici. Tale riserva consegue da segnalazioni circa la presenza di italiani in alcuni campi. A riguardo, tuttavia, le indicazioni ricevute non hanno chiarito se si tratti di istruttori, guerriglieri, mercenari o, al limite, di personale impiegato per esigenze logistiche. L'approfondimento e la verifica delle generiche notizie acquisite è da tempo oggetto di attenta ricerca." (v.documento Libia in esibizione del 30.03.96).

5. I principali fatti dal 73 al 76.

Il 73 si apre per la Libia con un fatto gravissimo, che cagionava preoccupazioni nel mondo intero. Il 21 febbraio l'Aviazione israeliana abbatteva un Boeing 727 con 109 persone, noleggiato dalla compagnia di bandiera libica, che aveva sorvolato un'area del Sinai. Israele tentava di accreditare la tesi che l'apparecchio non avesse obbedito alle ingiunzioni dei caccia, anzi avesse risposto di non accettare ordini dagli israeliani. Ma tale versione non veniva confermata dai fatti; tanto più che il pilota del Boeing era di nazionalità francese. Nella realtà il tragico incidente era da ricondursi alla psicosi acutissima di guerra che esisteva nella zona e in quel periodo. Tuttavia, la decisione presa dai militari israeliani non poteva non avere conseguenze serie.

L'Egitto nella circostanza veniva accusato dalla Libia di non essere intervenuto dopo l'attacco. Numerose manifestazioni antiegiziane si svolsero in Libia sino alla organizzazione a luglio di una "marcia" presso il confine con l'Egitto. Ad agosto Gheddafi e Sadat si incontrarono e firmarono un accordo che annunciava la realizzazione dell'unione araba, ma Sadat subito dopo rinviava sine die il referendum popolare che avrebbe dovuto sancire in Egitto la proposta di unione. E da questo tempo che i rapporti tra i due leader si raffreddano, anche a causa della guerra che l'Egitto muove ad Israele nell'ottobre del 73 e di cui Sadat aveva tenuto all'oscuro Gheddafi. Ulteriore causa del raffreddamento tra i due Paesi venivano favorite dalla popolarità che Sadat aveva acquisito alla fine della guerra con Israele; popolarità che gli permise di intraprendere una nuova politica di allontanemento dall'URSS, di inizio di una cauta "denasserizzazione", e quindi di apertura all'Occidente, soprattutto agli Stati Uniti. Non poteva che conseguirne, da queste iniziative, l'abbandono del progetto di unione con la Libia.

Il 1° marzo del 73 "Settembre Nero", l'organizzazione di lotta armata e guerriglia palestinese, mette in opera un'azione che tra l'altro può essere letta anche come risposta all'abbattimento dell'aereo libico. Nella capitale del Sudan, Khartum, mentre all'ambasciata dell'Arabia Saudita era in corso una cerimonia, un commando di "Settembre nero" entrava nella sede diplomatica e prendeva in ostaggio cinque diplomatici: l'Ambasciatore degli Stati Uniti Cleo Noel, l'incaricato di affari esteri statunitense George Moore che probabilmente aveva le funzioni di coordinatore del controspionaggio americano nel Medio Oriente, il diplomatico belga Guy Eid, l'Ambasciatore dell'Arabia Saudita Abdallah el Malhouk e l'incaricato di affari giordano Adly el Nawsser. Il "commando" poneva una serie di richieste per la liberazione degli ostaggi e cioè: la liberazione del leader palestinese Abu Daud e dei suoi compagni arrestati in Giordania, nonché di altri detenuti politici giordani; la liberazione di Sirhan Bichara Sirhan condannato negli Stati Uniti all'ergastolo per aver ucciso il 5 giugno 68 il senatore Robert Kennedy; la liberazione da parte di Israele delle donne palestinesi detenute nelle carceri; la liberazione in Germania del gruppo Baader-Meinhof. Gli Stati Uniti e Israele, nonché il sovrano di Giordania, respingevano tutte le richieste. I fedayn a questo punto uccidevano i due americani e il belga e, dopo tre giorni, il 4 marzo si arrendevano. Il governo di Khartum decideva che sarebbero stati processati per omicidio multiplo, mentre (e il gesto offriva il destro a numerose critiche) il Segretario di Stato Rogers che chiedeva la pena di morte.

Sempre nel 73 il capitano Labruna, i colonnelli Minerva, Giovannone e Milani del SID si recarono a Tripoli con l'aereo dell'Aeronautica a disposizione del Servizio, un Argo 16, per accompagnare due dei cinque terroristi arabi arrestati ad Ostia con due lanciamissili terra aria e i relativi congegni di lancio; armi con le quali avrebbero dovuto colpire un aereo delle linee EL AL in volo in prossimità di Fiumicino. Gli arabi erano stati arrestati il 5 settembre 73 dal SID in un appartamento presso Ostia. La liberazione dei terroristi arabi avvenne su richiesta dell'OLP di Arafat, che si impegnò nella circostanza a non porre più in atto condotte di terrorismo in territorio italiano (v. appunti del 26.10.73 e 19.10.73 trasmessi dalla Presidenza del Consiglio con missiva del 27.01.98).

E' sempre il colonnello Sasso a fornire un'indicazione interessante sull'incidente occorso poi al velivolo che aveva trasportato i fedayn in Libia, riferendo che "successivamente - a livello di Centro - allorché apprendemmo che l'aereo caduto era lo stesso con il quale erano stati trasportati in Libia i terroristi, ipotizzammo che potessero essere stati gli israeliani responsabili della caduta come atto di ritorsione nei confronti del nostro operato". (v. esame Sasso Aldo, GI 07.02.97).

La vicenda della sciagura all'aereo Argo 16 risale al 23 novembre 73. L'aereo dopo il decollo da Venezia Tessera si schiantò a Marghera e ne conseguì la morte dei quattro militari dell'equipaggio. La vicenda era stata archiviata come disastro aereo senza l'indicazione di colpe; il caso veniva invece riaperto a seguito dell'intervista che nel 1986 il generale Ambrogio Viviani rendeva ad un settimanale, nella quale chiaramente affermava che la disgrazia "fu un avvertimento del Mossad, il servizio segreto israeliano, un consiglio un po' cruento per far capire al nostro paese di smetterla con Gheddafi e con il terrorismo arabo palestinese".

L'istruttoria ha rilevato che la "trattativa" tra il Governo italiano e la Libia per il rilascio dei fedayn era stata seguita direttamente a Tripoli dal colonnello Marzollo del Raggruppamento Centri CS di Roma. Interlocutore dell'ufficiale, sulla delicata vicenda, il maggiore El Houni, capo del Servizio libico. Marzollo richiese a El Houni un intervento diretto sull'organizzazione terroristica "Settembre Nero" a causa delle intimidazioni che esponenti della stessa centrale terroristica avevano effettuato nel Libano su agenti del SID; intimidazioni consistenti in una sorta di ultimatum con scadenza al 25 settembre 73 per la liberazione dei cinque terroristi arrestati a Ostia e minacce di rappresaglia dopo tale data. Senza ottemperare alle ingiunzioni Jalloud, nell'occasione, si assunse l'onere di effettuare i passi necessari per intervenire nella giusta direzione, specie in ordine alla data di scadenza dell'ultimatum. Nell'occasione Jalloud ed El Houni, all'esito di un colloquio con Salah Khalaf alias Abu Ayad, ottennero da quest'ultimo una dilazione dell'ultimatum fino alla fine di ottobre.

A fine 98 l'istruttoria di Venezia ha avuto termine con rinvio a giudizio, cui sottostanno convincimenti del sabotaggio del velivolo da parte di elementi del Mossad in ritorsione alla liberazione e trasferimento in Libia dei fedayn arrestati a Ostia. Operazione con le coperture dei servizi italiani, dello SMA e degli apparati governativi del tempo. La lettura del carteggio del vecchio SID acquisito ha indotto il giudicantwe veneziano a ritenere "che il sabotaggio di Argo 16 ad opera degli israeliani sia stato considerato dal SID, e dai suoi organi tenuti agli accertamenti e alla raccolta di informative, una inevitabile quanto paradossalmente giustificata risposta di ELE e che conseguente dunque fu il soffocamento delle emergenze rinvenute a carico dei mandanti".

V'è però da rammentare che la situazione all'epoca tra i due Paesi e i loro Servizi non era tra le peggiori, anzi erano accaduti eventi che avrebbero dovuto imporre prossimità e ausili reciproci. Il fatto è del 23 novembre 73. Israele aveva sostenuto la guerra contro gli Egiziani, i Siriani e reparti iracheni e giordani (il Regno però si mantenne neutrale) cd del Yom Kippur tra l'attacco al canale il 5 ottobre e il cessate il fuoco del 22 successivo. Immerso in un mondo arabo - per non considerare quello islamico - che superava il centuplo della sua popolazione, non aveva alcun motivo di crearsi ulteriori nemici nel Mediterraneo. A meno che la sua sicurezza o sicumera, fosse tale da non temere l'ostilità dell'Italia o dovesse nei confronti di quest'ultima eseguire sanzioni già comminate per lo stillicidio continuo di scarcerazioni di terroristi mediorientali, compiute nel nostro Paese in quegli anni. Questo senza considerare la mai cessata rivalità tra noi e Israele per accreditarsi agli occhi degli Stati Uniti come il più valido delegato nell'area; e acquisire così il titolo tanto ambito di brilliant second nel Mediterraneo.

Ma per questi aiuti che sia il Servizio - all'epoca il SID - sia le forze armate avevano prestato quotidianamente e continuamente all'intelligence e all'armata israeliana, anche un progetto di rappresaglia per le liberazioni di terroristi, ed in particolare di quelli che avevano programmato l'abbattimento dell'aereo che portava a bordo il premier Golda Meir sarebbe stato superato dalla riconoscenza per gli aiuti militari e d'intelligence proprio in quel periodo. E d'altra parte l'Argo 16 - dai cent'occhi per le dotazioni di apparati di Elint - era un velivolo del SIOS/A usato saltuariamente per missioni del SID. Un'operazione contro di esso sarebbe stata interpretata piuttosto come a danni dell'AM su ufficiali AM. Anche se nella missione a Tripoli vi era un generale AM Terzani, in servizio al SID. Ma in tal caso il messaggio sarebbe stato troppo complesso, al limite dell'incomprensibile.

Gli altri tre arabi arrestati ad Ostia, secondo la testimonianza resa dal colonnello Milani al GI di Venezia, sarebbero stati anch'essi accompagnati, l'anno successivo, a Tripoli dai soliti Minerva, Giovannone e La Bruna. Conferma di tale liberazione e conseguente trasferimento in Libia giungeva dal colonnello Sasso che precisava che in quell'occasione fu utilizzato l'aeroporto di Grosseto.

Con l'allontanamento dell'Egitto dalla sfera d'influenza russa, l'URSS veniva a perdere il più prezioso punto d'appoggio navale del Mediterraneo. Ne consegue che l'attenzione di questa potenza si sposta sulla Libia. L'avvicinamento avviene attraverso l'acquisto della merce di cui può disporre la Libia: il petrolio. I Paesi del Patto di Varsavia furono invitati a lanciare offerte di acquisto di petrolio libico. Nella primavera del 74 Jalloud intraprese i primi viaggi nell'Est europeo e a maggio dello stesso anno compie la prima missione a Mosca, nel corso della quale stipulò importanti contratti di acquisto di materiale bellico. Da questo momento iniziano ad entrare in Libia aerei MiG-21 e MiG-23, bombardieri supersonici Tupolev TU-22 e carri armati. Mentre dalla Germania orientale cominciano a giungere le armi per la fanteria , tra cui il Kalashnikov AK-47.

Nel frattempo, a seguito di accordi firmati nel 74 tra il Presidente del Consiglio Rumor ed il Primo Ministro libico Jalloud, i contatti commerciali tra l'Italia e la Libia ebbero un'impennata. Difatti nel corso dello stesso anno furono date ulteriori concessioni di sfruttamento all'ENI e nel 75 furono stilati nuovi contratti di forniture militari.

A cavaliere di questi ultimi due anni, il SID diretto dall'ammiraglio Mario Casardi dava incarico al generale Gian Adelio Maletti, Capo del Reparto "D", di effettuare controlli riservati su Mario Foligni, che si accingeva a costituire un movimento politico di centro, denominato "Nuovo Partito Popolare". Dagli accertamenti esperiti risultò che il Foligni, tra l'altro, intratteneva contatti con elementi dell'ambasciata libica a Roma, al fine di importare una rilevante partita di greggio a prezzi inferiori a quelli contemplati dalle tariffe ufficiali, nell'intento di finanziare il costituendo movimento politico. Tale operazione sarebbe dovuta avvenire con il consenso del generale Raffaele Giudice, comandante della Guardia di Finanza, mentre la costituzione dell'NPP veniva caldeggiata dal generale Vito Miceli, già capo del SID. Gli accertamenti svolti sul conto del Foligni, che a detta dell'ammiraglio Casardi erano stati richiesti dall'on.le Andreotti, sfociarono in un dossier denominato convenzionalmente "M.FO.BIALI" originato dal Raggruppamento Centri CS di Roma, diretto dal colonnello Demetrio Cogliandro, e poi rinvenuto, in copia, al giornalista Mino Pecorelli, dopo la sua morte. L'operazione non ebbe esito grazie ai controlli messi in atto dal SID, controlli comunque che rimasero occulti, tanto che neanche l'AG venne informata degli illeciti emersi durante l'operazione.

Ad agosto veniva sventato un tentativo di colpo di Stato contro il regime messo in opera da Umar Abdallah Al Meheshi e da Munim Al Huni.

Il 16 marzo del 76 all'aeroporto di Fiumicino furono arrestati tre cittadini libici trovati in possesso di armi. All'epoca si suppose che i tre avrebbero dovuto attentare alla vita dell'ex Ministro degli Esteri El Huni, giunto qualche giorno prima a Roma, e oramai esule in Europa essendosi schierato contro il regime di Gheddafi. I tre libici, verranno prima condannati con sentenza del Tribunale di Roma emessa quattro giorno dopo il 20 marzo, e poi scarcerati con provvedimento di Grazia del Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, concesso il 28 del mese seguente.

A maggio il leader libico compiva la sua prima visita ufficiale a Mosca, consolidando così i rapporti tra i due Paesi.

Nel dicembre di quello stesso anno la Libia - come si è già fatto cenno - attraverso una propria banca la Libyan Arab Foreign Bank, entrò a far parte della Fiat con l'acquisto del 10% delle azioni ed ottenendo anche l'inserimento nel Consiglio di Amministrazione di due loro rappresentanti. Questa operazione influirà non poco sulle relazioni tra i due paesi.

6. La società ALI.

Il 77 è un anno difficile per il mondo arabo, giacchè da un lato il presidente egiziano Sadat apriva ad Israele, compiendo la prima visita ufficiale di Capo di Stato arabo in quel Paese, dall'altro Gheddafi, per rispondere all'apertura dell'Egitto ad Israele, costituiva a Tripoli, insieme ad altri Paesi arabi, il "Fronte della Fermezza", schieramento che contribuirà a rendere sempre più difficile e frammentato l'intero mondo arabo. Motivo di dissenso con l'Egitto non è soltanto la questione israeliana, ma anche la diversa visione dell'universo arabo. Gheddafi si considera l'erede del colonnello Nasser in materia di panarabismo. Egli sogna un mondo arabo unito e tale aspirazione lo spinge a lottare contro quei paesi arabi che non condividono questa sua visione.

Ma tali problemi non influiscono minimamente nei rapporti commerciali tra l'Italia e la Libia. Infatti proprio in quell' anno veniva siglato un accordo tra la Libia e la Società Siai Marchetti, che prevedeva l'acquisto da parte della Libia di aerei da addestramento SF260. Acquisto, al quale seguiva l'invio in Libia di piloti istruttori e specialisti, per lo più provenienti dalla carriera militare e "arruolati" dalla società ALI. La vicenda era emersa dalla documentazione trasmessa dal S.I.S.MI nell'autunno del 1989, tra cui un documento interno che riferiva di indicazioni fornite ai libici da ex militari italiani in Libia sui punti critici della Difesa Aerea italiana, ed un appunto in cui veniva addirittura avanzata l'ipotesi che il pilota del MiG caduto sulla Sila fosse in realtà uno dei piloti italiani all'epoca assoldati dai libici. Quest'ultimo appunto è quello redatto dal capitano Masci al rientro dalla Calabria e sul quale si è fatto ampiamente cenno nella parte relativa al S.I.S.MI.

Sulla base di questa documentazione venivano richiesti al Servizio ulteriori documenti, da cui è emerso che: l'Aero Leasing Italiana fu oggetto di indagini riservate ad opera del S.I.S.MI a partire sin dal 79, come si rileva dagli appunti inviati il 27.10.79 e il 14.12.79 al Ministro della Difesa Ruffini e al Segretario Generale del CESIS Pelosi; il Servizio rendeva noto che ufficiali e sottufficiali dell'Aeronautica Militare Italiana, collocati in congedo a domanda o per raggiungimento del limite di età, venivano contattati dalla Siai-Marchetti, società del settore aeronautico, in virtù di un accordo commerciale stipulato con la Libia, "nel quale era prevista la temporanea presenza in territorio libico, a spese di quel Governo, di istruttori qualificati sui velivoli forniti da parte della stessa società".

Le operazioni di "reclutamento" erano coordinate dal generale Mario Tortora, titolare di un'imprecisata agenzia con sede in Roma, unitamente agli altri consociati generale Paolo Moci e colonnello Luciano Pedenovi; detta agenzia avrebbe operato per conto del governo libico con funzioni di "reclutamento, addestramento, pianificazione e programmazione dell'attività addestrativa e tecnico logistica".

Veniva segnalato, inoltre, che detto esodo avrebbe provocato inevitabilmente riflessi negativi sulla sicurezza nazionale, in quanto il personale qualificato con un notevole bagaglio d'esperienza, allettato "dalle invitanti proposte libiche potrebbe richiedere precocemente e a getto continuo, di essere collocato in congedo, provocando così un depauperamento degli organici dell'Aeronautica Militare Italiana ed un danno economico non indifferente allo Stato".

Il 3l marzo del 80, il Servizio informava il Ministro della Difesa, il Segretario generale del CESIS e la Presidenza del Consiglio che la società incaricata del reclutamento era l'Aero Leasing Italiana con sede in Roma; all'appunto veniva allegato un prospetto informativo, in cui era riportato l'oggetto sociale, che la classificava come società fornitrice di servizi nel campo aereo, e l'organigramma della stessa, nel quale era presente il sindaco effettivo dottor D'Alessandro Luigi, che, sempre secondo il S.I.S.MI, sarebbe stato colui che aveva il compito di reclutare i piloti istruttori. I servizi forniti comprendevano, tra l'altro, il trasporto aereo pubblico su tratte nazionali ed internazionali, l'istituzione e l'esercizio di scuole per il pilotaggio aereo di ogni grado e per ogni tipo di velivolo.

Il Servizio, in un appunto del 21.01.81, evidenziava nuovi particolari sulla vicenda; l'industria italiana Siai-Marchetti, produttrice già dal 77 di velivoli, aveva assunto nel 78 un impegno con il Governo libico per un non meglio precisato "programma libico", nel quale, tra l'altro, era previsto "il montaggio e la manutenzione in Libia di aerei leggeri tipo SF-260" prodotti dalla medesima ditta e "la preparazione e l'addestramento di circa 350 piloti libici".

Non avendo a disposizione il personale necessario per il dovuto addestramento ai piloti libici, la Siai-Marchetti si era rivolta alla ALI. Detta società, come già indicato, curava la gestione dei corsi di pilotaggio; aveva infatti alle proprie dipendenze circa sessanta tra ufficiali e sottufficiali, congedatisi dall'AM, impiegati nella ditta con mansioni di istruttori piloti e specialisti.

Sempre nella stessa nota veniva fatto riferimento agli stipendi concordati con i dipendenti ALI, fissati intorno ai 3.500.000 di lire per gli istruttori piloti, e al 1.800.000 di lire per gli specialisti.

Inoltre si sottolineava che nella vicenda emergevano due punti salienti e cioè il costante impoverimento del personale AM più qualificato e la costituzione di una società, l'ALI che appariva una società di comodo legata agli interessi della Siai-Marchetti con finalità di sfruttamento delle agevolazioni concesse dallo Stato nello specifico settore del trasporto aereo.

Sulla base di questo elemento nel corso dell'audizione parlamentare del 28.07.89 vengono richiesti al generale Tascio - capo del SIOS Aeronautica nell'80 - chiarimenti sul ruolo da lui avuto nel reclutamento da parte dell'Aeritalia e della Siai Marchetti di piloti e specialisti italiani da inviare in Libia con le mansioni di istruttori. L'alto ufficiale ricorda soltanto che detti piloti venivano reclutati direttamente, senza alcun interessamento degli organi dell'Aeronautica Militare italiana, tramite una società con partecipazione della Siai-Marchetti.

Successivamente nel corso di ulteriori audizioni parlamentari svoltesi nel 90, in cui fu sentito l'ammiraglio Martini, direttore dall'84 al 91 del S.I.S.MI, si chiarisce che nel 78 la Siai-Marchetti aveva concluso un accordo con le autorità libiche per la vendita di 250 SF.260; accordo che prevedeva, tra l'altro, l'invio in Libia di personale qualificato da impiegare come istruttori dei piloti della locale aviazione militare. La Siai-Marchetti, non disponendo del necessario personale per svolgere detti corsi, aveva affidato a una società esterna, denominata Aero Leasing Italiana, il reclutamento e l'invio in Libia del personale istruttore.

Emerge inoltre il fatto che sempre nel 1980 si era avuta un'accentuazione della frequenza delle penetrazioni di aerei libici nei nostri spazi aerei; penetrazione che, secondo il documento del 25.09.86 consegnato dal S.I.S.MI alla Commissione, era dovuta alla conoscenza da parte dei piloti libici degli spazi critici della nostra difesa aerea; conoscenza, probabilmente, da attribuire alle notizie tecniche fornite dai piloti italiani congedati dall'AM e presenti in quel Paese.

A seguito della pubblicazione in data 19.07.90 sul settimanale "Europeo" dell'articolo titolato "Istruivo i libici per conto di Roma", l'Ufficio convoca in data 01.09.90 la persona intervistata, cioè Salvatori Gianluca. Questi, ufficiale AM congedatosi il 31.12.80, riferiva di essere stato contattato, nel febbraio 81, dal generale in pensione Mario Tortora, che gli aveva proposto l'assunzione presso l'ALI, proposta che aveva accettato nel marzo del 1981; lo stipendio con cui veniva remunerato mensilmente era di circa 3.600.000 netti, più vitto ed alloggio; per porre in evidenza quanto fosse alta questa retribuzione portava come termine di paragone lo stipendio percepito dai dipendenti dell'AM, e cioè circa 900.000 al mese, e quello percepito dai dipendenti dell'Alitalia, di circa 1.500.000.

Da un'analisi della documentazione sequestrata presso l'ALI nel settembre 1990, si rilevano i nominativi di piloti e tecnici che tra la fine degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta avevano operato sul territorio libico quali istruttori di personale militare che sarebbe stato impiegato su velivoli venduti dalla Siai-Marchetti; quest'ultima, come indicato dall'ammiraglio Martini, aveva concluso un contratto con la Libia che prevedeva oltre la vendita di 240 velivoli SF-260 anche dei corsi di addestramento tecnico per specialisti e piloti libici.

Per tale motivo la Siai-Marchetti, sprovvista di personale idoneo all'addestramento, si era accordata con la società partecipata ALI, alla quale aveva demandato l'organizzazione di detti corsi. L'accordo era durato dal 1979 al 1984, raggiungendo, avuto riguardo alla presenza di personale dipendente in Libia e ai conseguenti introiti, l'apice nel 1981.

Detto personale, che operò nella regione africana per l'intero periodo della commessa con una presenza totale di circa 230 unità tra piloti istruttori, specialisti e personale addetto alla logistica, proveniva per la quasi totalità da congedati delle forze armate. L'escussione dello stesso ha consentito di accertare che presso le basi di Ghat e Sebha, ove erano stati dislocati i piloti istruttori e gli specialisti dell'ALI, era presente, in particolare modo nella seconda base, anche personale di nazionalità americana, russa, cecoslovacca, palestinese, francese, siriana e pakistana, tutto impiegato in mansioni d'istruzione e supporto logistico.

Emergeva, inoltre, che presso la base di Sebha stazionava un velivolo Mystère Falcon 50 in uso al governatore della regione del Fezzan ed al leader libico Gheddafi, pilotato da piloti non libici.

Allo scopo di riscontrare l'ipotesi secondo la quale il velivolo DC9 sarebbe stato colpito casualmente in quanto scambiato con quello del leader libico, che percorreva una rotta inversa a quella del velivolo dell'Itavia, nell'aprile del 91 viene convocato un pilota italiano, tale Pica Mario. Costui dichiarava di aver prestato servizio per l'AM, l'ATI, l'Airopa, la Libyan Arab Airlines e varie altre compagnie africane; riferiva di essere stato assunto nel giugno del 1980 dal governo libico come pilota di un Falcon 50, velivolo ritirato unitamente a due ufficiali libici in Francia e trasferito nei primi di agosto presso l'aeroporto di Sebha. Detto velivolo era ufficialmente a disposizione del governatore del Fezzan, ma poteva essere usato anche dal colonnello Gheddafi. Affermava altresì che per tutta la sua durata del servizio presso la Repubblica nord-africana non aveva mai trasportato il leader libico. Aveva abbandonato l'incarico presso il Governo libico il 17.08.80, per rientrare in Europa, ed il suo posto era stato occupato da un pilota francese di nome Marx Andrè, presentato ai funzionari della Repubblica libica dalla Falcon Service. (v. esame Pica Mario, GI 12.04.91).

Dagli esami dei dipendenti ALI, emerge che nessuno di costoro aveva avuto modo di conoscere Ezzeden Khalil, pilota del MiG precipitato in Calabria; che il venerdì, giorno festivo nei paesi arabi, i voli di addestramento, salvo rare eccezioni, erano sospesi; che la tuta di volo per aviogetti dell'aeronautica libica era di colore verde-scuro; che il casco del pilota veniva personalizzato, il più delle volte, scrivendo il proprio nome, in caratteri occidentali o arabi; che i contatti con le autorità libiche venivano tenuti localmente da un rappresentante della Siai-Marchetti. Emerge anche, secondo molti testi, che a seguito dell'inizio delle ostilità tra la Libia e il Ciad le autorità libiche chiesero ai responsabili della Siai-Marchetti la disponibilità di piloti ALI al fine di accompagnare presso il confine libico, o in zona di operazioni, gli allievi da poco abilitati al volo e poco pratici di navigazione, di compiere missioni operative nei territori occupati e di dare appoggio logistico con specialisti della ditta presso le basi operative all'interno del territorio ciadiano. A dire degli escussi queste ultime richieste furono rifiutate dalla ditta, ma accettate da alcuni singoli dipendenti dietro lauto compenso.

L'Ufficio ha volto la sua attenzione anche agli incidenti mortali in cui risultava coinvolto il personale italiano, presente in Libia, dipendente della società ALI, per tentare di accertare se il pilota del velivolo MiG23, dal momento che calzava anfibi in uso all'AM, potesse essere stato uno degli addestratori italiani. Nel corso dell'analisi della documentazione sequestrata nel 90 e delle escussioni del personale ALI, tese ad appurare detta ipotesi, veniva rilevato che tre dipendenti erano periti in seguito ad incidenti aerei in territorio libico: Frescura Giuseppe morto il 12.10.80 in volo di addestramento con un allievo libico a cui stava probabilmente impartendo lezione di volo; Brogi Paolo e Rosso Ivan, morti il 3.11.81 mentre stavano effettuando un volo di ambientamento (v. rapporto DCPP 224/706, 13.05.91).

La società richiamava nuovamente, nel 95, l'attenzione dell'inchiesta nel corso delle indagini volte ad appurare quanto scritto negli articoli stampa apparsi sul numero del 7.07.93 di "Avvenimenti", titolati "Nel mare di Ustica" - "L'uomo ad un passo da Dio" e "La strana storia dei piloti di Gheddafi", ove si faceva riferimento al fatto che il noto Pacini Battaglia subito dopo la costituzione della società ALI nel 79 fosse divenuto un consociato di detta società. Da accertamenti svolti, su documentazione già acquisita agli atti nel 90, emerge che il noto finanziere, è stato effettivamente socio dell'ALI, ma nel periodo settembre 84 - dicembre 86.

La società Aereo Leasing Italiana veniva correlata dal Servizio con il noto incidente occorso al MiG23 precipitato in Calabria. Nell'appunto del 28.07.80, la 1ª Divisione riferiva che un'ufficiale dipendente, poi identificato per il capitano Masci, aveva ipotizzato che il pilota fosse un italiano ingaggiato dalla Libia tramite la "nota società ALI" e che "per motivi ora sconosciuti, questi avesse deciso di rientrare in Italia"; la considerazione dell'ufficiale scaturiva dal fatto che il pilota deceduto portasse stivaletti anfibi dell'Aeronautica Militare Italiana,

In altra nota inviata il 25 ottobre 80 dal Centro CS di Verona al Direttore della 1ª Divisione si riferisce invece l'accordo segreto stipulato fra la Libia e la Jugoslavia relativo all'uso, come scalo tecnico, degli aeroporti di questo secondo Paese da parte di velivoli libici. Le missioni dirette verso gli aeroporti d'oltremare prevedevano il decollo dall'aeroporto militare di El Labrar con rotta attraverso il Mediterraneo centrale, lo Ionio e il basso Adriatico per giungere in Jugoslavia. Tale aerovia non sarebbe stata interamente coperta dal sistema della Difesa Aerea italiano, a causa di alcune zone "cieche". Il Centro periferico rilevava che detto accordo doveva essere considerato anche alla luce del fatto che in Libia erano presenti numerosi ufficiali dell'AM in congedo, "certamente a conoscenza della consistenza e ubicazione delle zone cieche del sistema di avvistamento aereo italiano".

Il Servizio, inoltre, attivatosi in merito alla "vendita", da parte di piloti militari italiani all'aeronautica libica, delle zone del sistema della difesa aerea nazionale ove i radar erano "ciechi", acquisisce elementi contenuti in un appunto, trasmesso in data 10.03.81 dal Centro CS di Padova, secondo cui una "fonte occasionale" aveva ascoltato casualmente una conversazione tra un ufficiale dell'aeronautica tedesca ed un'altra persona, durante la quale il militare riferiva che "l'aereo libico precipitato in Calabria era riuscito ad eludere i radar italiani in quanto a conoscenza delle zone italiane scoperte"; tali aree sarebbero state segnalate su "cartine segretissime in dotazione alla NATO" e fornite ai libici da un "non meglio identificato Buono capitano dell'aeronautica italiana che si trovava in Libia per motivi non noti".

Il 2° Reparto dello Stato Maggiore dell'Aeronautica, interessato dal Servizio per procedere alla completa identificazione del citato capitano, riferisce, in data 28.04.81, che non esiste agli atti nessun militare che risponde ai nomi di "Cap. Buoni - Buono o Buona". Nel successivo mese di luglio lo stesso SIOS inoltra un "rapporto" relativo ad un ufficiale pilota Gianfranco Bono, in relazione alla sua permanenza in Libia per il periodo aprile-luglio 79. Ad una nuova richiesta del Servizio di acquisire ogni possibile elemento sul citato periodo di permanenza in Libia dell'ufficiale menzionato "per possibile compromissione della sicurezza nazionale", lo SMA 2° Reparto risponde riferendo che l'ufficiale aveva svolto attività di istruzione a Ghat su velivoli SF-260 dal 5.4 al 5.07.79.

Il 77 è anche l'anno in cui Gheddafi promulga la nuova Costituzione e proclama la nascita della Jamahirija socialista araba popolare libica, ma è anche l'anno in cui aumenta la tensione con il vicino Egitto, al punto che si determina un breve conflitto armato, la "guerra dei quattro giorni", lungo la frontiera del deserto libico che divide i due Paesi.

7. La scomparsa dell'Imam Mousa Sadr.

I rapporti tra i due Servizi si intensificano nuovamente nel 78 in occasione della scomparsa dell'Imam sciita Mousa Sadr, sul conto del quale i libici tentano di imporre la tesi che la sparizione sarebbe avvenuta in Italia. Il Servizio italiano, diventato nel frattempo in virtù della riforma del 77 S.I.S.MI, al riguardo veniva a conoscenza che il religioso era stato trattenuto ed internato in Libia; mentre, la magistratura italiana archiviava l'inchiesta, stimando accertato che l'Imam ed i suoi accompagnatori non fossero mai saliti a bordo del volo Alitalia Tripoli-Roma.

In seguito, in occasione di un colloquio tra il nostro Ambasciatore a Tripoli Conte Marotta ed il Ministro libico Gaud, questi, tra le altre cose formulava la richiesta al Governo italiano che "nota Commissione su Imam, composta di esperti dei due Paesi, dovrebbe riunirsi quanto prima per verificare prove aut accertamenti in possesso ciascuno et emettere risultanze che scagionino Libia et Italia". Tale richiesta di tono quasi "accomodante" probabilmente scaturiva dal fatto che alcuni Paesi arabi, tra i quali il Libano e l'Iran, accusavano Gheddafi della sparizione dell'Imam sciita e con tali paesi la Libia si trovava in una delicata situazione, tanto che lo stesso leader si era visto rifiutare l'ingresso in Libano, in occasione di una visita in quell'area del Medio Oriente.

In un appunto del S.I.S.MI dedicato alla vicenda si legge che essa ha provocato vivaci reazioni nel mondo arabo. In particolare: "In Libano, si sono avute le reazioni più immediate e decise. Oltre all'invio di due agenti dei Servizi di informazione in Italia che rientrarono in patria convinti dell'estraneità dell'Italia nella vicenda, si sono verificate una serie di manifestazioni ostili a Gheddafi, ritenuto responsabile della scomparsa dell'Imam, tanto da costringere quel governo a negargli l'ingresso in territorio libanese in occasione di un viaggio che lo aveva portato, tra il 29 giugno ed il 13 luglio 79, in Siria, in Iraq, Giordania, nonché in altri paesi arabi. L'intenzione degli sciiti libanesi di non far cadere il caso nel dimenticatoio, si è manifestata inoltre anche con il dirottamento di due aerei dell'Alitalia, rispettivamente nel settembre del 79 e nel gennaio c.a.; in Iran, lo stesso Khomeini, amico personale di Mousa Sadr, si è reso interprete in più di una circostanza dello sdegno che tale scomparsa aveva provocato tra i milioni di sciiti del suo Paese. La convinzione di Khomeini, e dei suoi più qualificati seguaci, che responsabile della scomparsa di Mousa Sadr fosse Gheddafi, è stata più volte manifestata pubblicamente e si è poi concretizzata sia con una rottura diplomatica, tuttora in atto, sia impedendo una visita di Gheddafi in Iran già programmata da tempo; la stessa PLO (l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina) si è schierata decisamente contro Gheddafi sulla questione Iman, tanto che si vuole sia stato questo atteggiamento ad indurre il leader libico ad attaccare i vertici dell'Organizzazione palestinese rompendo praticamente i rapporti con essa (v. appunto S.I.S.MI senza data, in acquisizione del 30.03.96). Donde l'importanza per Gheddafi di riuscire a modificare il giudizio già espresso dagli altri Stati arabi sulla scomparsa dell'Imam.

Ed è proprio in questi anni che si ricorre nuovamente alla persona del generale Jucci. Egli viene più volte incaricato di missioni riservate e di alto profilo volte a stabilire relazioni più strette con il Governo libico. Nel 79 a seguito dell'arresto di alcuni pescatori italiani sorpresi a pescare nelle acque territoriali libiche, ai contatti diplomatici si affiancavano quelli del generale, incaricato di condurre le trattative direttamente su disposizione del Presidente del Consiglio Cossiga. Trattative che iniziavano in Italia con contatti con il rappresentante a Roma dei servizi libici, Mousa Salem, e proseguivano in Libia con alti funzionari e finanche con Jalloud. Prima di passare a ricostruire i contatti tra l'ufficiale e i libici va rilevato che in una missiva dell'ambasciata d'Italia in Libia del 27.06.79 - perciò prima dell'incarico - si legge che nel corso di un colloquio con il "Segretario ai contatti", quest'ultimo Ministro vicino a Gheddafi incaricato dei contatti con l'estero, aveva riferito al rappresentante italiano che "tutto è stato stabilito a Roma, noi vi diamo i pescatori e voi ci date quelli che stanno a Roma". L'Ambasciatore in un primo momento aveva pensato che si riferisse a libici per fatti detenuti per fatti comuni nelle nostre carceri, ma a seguito di chiarimenti richiesti a Roma, aveva ben intuito che il Ministro libico si riferiva ai libici non graditi dal regime di Tripoli (v. missive del 15 e 27 giugno 79 in atti trasmessi dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in data 27.01.98).

Il generale svolse due missioni, la prima dal 21 al 23 settembre 79 e la seconda dal 17 al 22 ottobre 80. Dietro la giustificazione ufficiale del negoziato per la liberazione dei pescatori italiani, l'ufficiale aveva il compito di chiarire a nome del Governo italiano la situazione venutasi a creare a seguito della scomparsa dell'Imam. La mediazione del generale Jucci anche questa volta aveva esito positivo. Infatti i pescatori nell'ottobre del 79, furono tutti liberati ed accompagnati in Italia dallo stesso Jucci che, al riguardo, consegnava al Presidente del Consiglio una relazione, in cui era riepilogata cronologicamente l'intiera missione. L'appunto è stato acquisito dagli atti della Presidenza del Consiglio privo però di un allegato relativo alla scomparsa dell'Imam sciita.

In questa relazione il generale Jucci, relativamente alla prima missione, dopo aver premesso che "la presenza italiana in Libia è massiccia sia per il numero di persone presenti sia per gli enormi interessi economici attualmente in gioco e per quelli di possibile acquisizione ... qualora venisse ritenuto opportuno continuare nella nostra penetrazione economica e svilupparla, cosa che è possibile, sarebbe necessario rinforzare adeguatamente l'ambasciata", concludeva precisando che: "E' indispensabile che vengano intrattenuti rapporti amichevoli e "comprensivi" con coloro che sono preposti a due settori fondamentali per il perdurare del regime: i Servizi segreti e le Forze Armate; è in questo quadro che, fra l'altro, dovrebbe essere accettata la costituzione della Commissione mista per indagare sulla scomparsa dell'Imam, "pilotandone" le conclusioni" (v. atti trasmessi dalla PCM con missiva del 18.06.96).

La seconda relazione risulta trasmessa in data 23 ottobre 79 dal Capo di Stato Maggiore dell'Esercito al Presidente del Consiglio on.leFrancesco Cossiga ed al Ministro della Difesa, on.le Attilio Ruffini. In questo documento il generale Jucci annota tutti i contatti avuti con la dirigenza libica nel periodo che va dal 17 al 22 ottobre 79. Vi si legge: "Ritengo che la mia missione in Libia abbia avuto pieno successo per il mio paese. Tutto quello da me richiesto è stato ottenuto. I marittimi sono stati graziati e praticamente tutti saranno inviati in Italia. La nostra penetrazione economica in Libia già notevole (per il 1979 le importazioni italiane dalla Libia (greggio) ammonteranno a 1455 miliardi di lire, le esportazioni verso la Libia saranno pari a circa 1106 miliardi di lire, mentre il valore delle commesse industriali acquisite da compagnie italiane, raggiunge i 1300 miliardi, con un saldo attivo per l'Italia di una pari somma; è da considerare inoltre che l'ENI, come sua parte in base all'accordo stipulato il 29.09.72, acquisisce greggio per migliaia di miliardi annui) potrà essere decisamente potenziata. Per almeno un anno, in relazione al "noto caso", l'iniziativa è dalla parte nostra. Tralasciando i problemi di sicurezza e di controllo connessi con la presenza di libici in Italia, devoluti al Direttore del S.I.S.MI, rimangono a mio carico: - l'addivenire ad una adeguata soluzione del "noto caso"; - il mantenimento dei contatti diretti, tramite i tre ufficiali del Consiglio della rivoluzione, con il presidente Gheddafi.

Per operare in tal senso, premesso che è indispensabile la disponibilità di un appartamento di copertura e di due - tre elementi del servizio, chiedo ovviamente precisa autorizzazione da parte delle autorità dalle quali direttamente dipendo: Ministro della Difesa, Capo di SME.

L'unico elemento che mi lascia pensoso e perplesso è di essere stato nuovamente coinvolto, a distanza di sette anni, in un'area geografica nella quale avevo già operato con successo, ma rischiando la vita. In tale precedente occasione raccolsi nel mio paese amarezze ed anche "umiliazioni" senza essere adeguatamente sostenuto, almeno moralmente; sarebbe per me fonte di ben più grave contrarietà se tali penose vicende dovessero nuovamente ripetersi".

Al S.I.S.MI pertanto andavano devolute le richieste concernenti la sicurezza dei libici in Italia. A tal riguardo il Ministro Gaud aveva richiesto: "(1) Possibilità di soggiorno in Italia per i libici che studiano, commerciano, sono in cura, e, comunque vivono senza complottare contro il governo libico; (2) possibilità di avvicinare i cittadini libici renitenti alla leva; qualora questi avessero acconsentito a rientrare sarebbe stato loro consegnato un biglietto aereo gratis e concesso il perdono; qualora non volessero fare rientro in patria, allo scadere del permesso di soggiorno avrebbero dovuto essere accompagnati ad una frontiera di loro gradimento; (3) controllo di quei libici che vivono in Italia (poche unità) e sono sospettati di complottare contro il governo libico. Al riguardo veniva richiesta una collaborazione per conoscere il luogo ove è stampato il noto giornale della dissidenza e i nomi dei promotori" (v. atti trasmessi dalla PCM con missiva del 20.03.97).

Come s'è visto il generale Jucci nel corso di queste missioni incontra la dirigenza libica ai massimi livelli riuscendo a trovare punti d'intesa che difficilmente altri interlocutori sarebbero riusciti a trovare. Il generale sentito a testimone ha così rievocato la vicenda: "Ricordo la missione che effettuai nel 79 in Libia per la soluzione della questione del sequestro di pescherecci italiani e dell'arresto dei relativi equipaggi. Ricevetti l'incarico dall'allora Presidente del Consiglio, on.leCossiga. Ricordo che avendo collaborato con Cossiga come Ministro dell'Interno al tempo del sequestro Moro per la costituzione di uno speciale gruppo di teste di cuoio che traemmo dal col Moschin e addestrammo allo specifico intervento, il Presidente ritenne opportuno affidare a me la mediazione, per la quale più volte chiesi di essere esonerato, perché ritenevo che il compito potesse essere meglio assolto dai Servizi. Io all'epoca, come ho già detto, ero generale di brigata del SIOS Esercito. Il presidente Cossiga mi disse che tutti i tentativi erano stati fatti ed erano andati a vuoto e che quindi mi pregava di accettare l'incarico. Chiesi al Presidente del Consiglio di svolgerlo come rappresentante straordinario del governo. In tal senso fui incaricato da Cossiga e tramite l'Ambasciatore italiano in Libia, conte Marotta, in tal veste fui accreditato presso le autorità libiche. L'incarico era quello di far liberare i sedici o numero simile di marittimi e di porre le basi di un accordo che potesse evitare il ripetersi di simili situazioni. In loco avrei dovuto accertare le richieste dei libici e vedere in pratica cosa si potesse fare. Come primo incarico dovevo far rispondere a una o due lettere inviate dal Presidente della Repubblica Pertini al presidente Gheddafi per la liberazione dei marittimi. Tale incarico si rivelò più difficile di quanto immaginassi, perchè dovetti attendere a lungo la risposta - anzi credo che mi fu data in un secondo viaggio. Risposta che mi fu consegnata in sola lingua araba, tant'è che arrivato di domenica in Italia me la feci prima tradurre, al fine di evitare spiacevoli conseguenze. La lettera era più che riguardosa e quindi provvidi immediatamente alla consegna.

Sul problema specifico dei pescatori, ebbi subito l'impressione che costoro fossero nel torto e quindi cercai di impostare la soluzione da un punto di vista umanitario e di amicizia. Nel frattempo l'Ambasciatore conte Marotta per conto del ministro Malfatti, Ministro degli Affari Esteri all'epoca, mi chiese di affrontare con il governo libico la trattazione di altri problemi di minore entità in sospeso, tra gli altri la posizione del vice o capo scalo Alitalia, che si sarebbe intromesso in una esportazione di lingotti d'oro sottratti alla banca di Libia.

Altra questione essenziale su cui vi erano richieste libiche, vi era la collaborazione richiesta sulla scomparsa dell'Imam Mousa Sadr. Le tesi possibili erano due: o Mousa Sadr era scomparso in Libia e quindi con l'eventuale compromissione dei libici, o era arrivato in Italia - con due suoi collaboratori e qui era giunto per volontà sua e di altri. I libici, che ovviamente erano per questa seconda soluzione, chiedevano la costituzione di una commissione mista a livello governativo con tecnici. Dopo un primo "traccheggiamento" dicemmo apertamente ai libici che la questione in Italia era di competenza dell'AG e che al massimo avremmo potuto pregare i giudici competenti di accelerare al massimo gli accertamenti. Il mio interlocutore era un certo Gaud, personaggio al di sopra dei Servizi, con rango di ministro, molto vicino al tempo al colonnello Gheddafi. Dissi a questo Gaud che dovevano prendere un avvocato in Italia e portare testimoni non libici, ma di altri Paesi che avessero visto l'Imam fuori della Libia o sull'aereo. Non so come andò a finire la vicenda giudiziaria. Ho letto sui giornali che si è chiusa con un'archiviazione.

Subito dopo aver ricevuto l'incarico dal Presidente Cossiga e prima di partire per la missione chiesi ed ottenni di parlare con il Direttore del S.I.S.MI, all'epoca generale Santovito, con il quale, peraltro, avevo ordinari rapporti di servizio come capo del SIOS Esercito. Egli era a conoscenza dell'incarico e mi fece gli auguri ed io lo rassicurai nel senso che l'avrei informato degli sviluppi della vicenda. (...) I libici annettevano un interesse notevole alla vicenda della sparizione dell'Imam giacchè la scomparsa di una figura così carismatica per gli sciiti e che godeva di diritto di ospitalità presso il governo libico, danneggiava enormemente l'immagine della Libia in tutto il mondo arabo. I libici tendevano a far prevalere la tesi che l'Imam fosse partito dalla Libia e che la scomparsa era avvenuta al di fuori del territorio libico. Chiesero inizialmente la costituzione di una commissione bilaterale. A questa richiesta ho risposto che le leggi italiane non le consentivano e che in Italia l'unica deputata era la magistratura. I miei suggerimenti alla parte libica sulla vicenda furono quelli di nominare un valido avvocato italiano e di portare testimonianze di persone al di sopra di ogni sospetto, non libiche. Il mio interlocutore principale è stato il ministro Gaud. Non ricordo l'età di questi. Era uno che contava molto. Sicuramente era più importante di Belgassem che era capo del servizio libico. Il mio interlocutore libico (Gaud) non mi dette soluzioni al caso, sosteneva che la vicenda era nata all'interno di faide tra fazioni islamiche. Non ricordo se fece menzione di una possibile matrice iraniana. Non mi consegnarono documenti specifici sulla vicenda. Forse mi diedero qualche memoria per sostenere le loro tesi. Al rientro in Italia ho relazionato per iscritto sia su ciò che avevo fatto, sia sul prosieguo di eventuali attività che dovevano essere di competenza del S.I.S.MI. Naturalmente vidi anche il generale Santovito al quale diedi visione di questa relazione. Probabilmente forse vidi qualche altra volta elementi del servizio ma senza motivi specifici. Mentre stavo ancora in missione in Libia io trasmettevo al presidente Cossiga ed al ministro degli AA.EE. relazioni sull'evolversi della situazione. La vicenda non si concluse subito, ricordo che andai più volte in Libia. Forse 4 o 5 volte, o forse più." (v. esame Jucci Roberto, GI 16.04.97).

Il generale pertanto comunicava giornalmente con il Presidente Cossiga e col Ministro degli Affari Esteri. Egli ricorda che notiziava, periodicamente, "attraverso l'ufficio cifra dell'ambasciata, il Presidente del Consiglio, Cossiga, il Ministro degli Esteri, Malfatti, ed il Ministro della marina mercantile attraverso gli Affari Esteri. Ai primi due comunicavo - essenzialmente - sull'andamento dei colloqui concernenti la storia della scomparsa dell'Imam e dei rapporti tra i due Paesi, mentre al terzo fornivo notizie sui pescatori e su eventuali contratti di pesca da mettere sul tavolo delle trattative commerciali. Più di una volta arrivai alla rottura con gli interlocutori libici. In tali occasioni chiedevo disposizioni al Presidente del Consiglio ed al Ministro Malfatti".

L'ufficiale dava conferma che il "noto caso" di cui si parlava nella relazione era quello della scomparsa dell'Imam Mousa Sadr e che al rientro della missione conferito con il Presidente Cossiga. Così egli rievoca il colloquio: "Di certo al mio rientro ho avuto un colloquio con il Presidente Cossiga che mi dimostrò la sua riconoscenza. Vidi anche il Ministro Malfatti. Ritengo di aver detto a Cossiga ed anche a Malfatti che i libici non avevano prove certe che l'Imam fosse giunto in Italia, almeno al momento, ma che comunque era opportuno dare prova di buona volontà sollecitando accertamenti al riguardo. Cossiga era conscio della delicatezza della vicenda e ritengo che abbia svolto azioni per imprimere agli accertamenti una dovuta importanza, dando così l'impressione alla controparte della nostra buona volontà, ma sempre nei termini consentiti dalla legge". Poi indica nel Procuratore Generale Pascalino il "noto personaggio" citato al foglio "azioni che vengono proposte" (v. esame Jucci Roberto, GI 29.04.97).

Riferimenti alla sparizione dell'Imam si rilevano anche nel diario dell'Ambasciatore a Teheran, Giulio Tamagnini. Il diplomatico alla data del 30 aprile 79 scrive: "Mi telefona Baldocci, capo dell'ufficio del segretario generale della Farnesina, a proposito della patata bollente che abbiamo in questi giorni per le mani. La questione - la scomparsa - di Musa Sadr, capo spirituale degli sciiti in Libano - risale all'agosto scorso ma è tornata ora a galla in quanto rappresenta un serio ostacolo al riavvicinamento fra Iran e Libia, oggi auspicato dai rispettivi "leaders" Khomeini e Gheddafi. Musa Sadr, dopo una visita in Libia, doveva partire il 21 (31) agosto 1978 per Roma sulla strada del ritorno in Libano. Qualcuno viaggiò quel giorno sull'aereo Roma-Tripoli, con un passaporto intestato a Musa Sadr, insieme con due accompagnatori. Ma con quel volo si persero le tracce del "leader" sciita, verosimilmente fu fatto sparire in Libia ed un falso Musa Sadr viaggiò con il suo nome sino a Roma dileguandosi poi con i due soci. I libici, oggi desiderosi di allacciare rapporti con il capo sciita dell'Iran, Khomeini, cercano di accreditare la voce che Tripoli non ha a che vedere con la scomparsa di Musa Sadr, i cui ultimi movimenti vanno invece ricostruiti in Italia, "paese notoriamente in preda al terrorismo (vedi caso Moro). Ricevo istruzioni di fare un passo a Teheran, al massimo livello".

Il diplomatico ritorna in argomento alla data del 5 maggio: "Colloquio con il nuovo ministro degli Esteri Ibrahim Yazdi. Compio il passo su Musa Sadr; da notare che proprio oggi è a Teheran e verrà ricevuto dallo stesso Yazdi, il "leader" dell'organizzazione Amal creata da Musa Sadr fra gli sciiti del Libano meridionale, Hossein-al Hosseini. Yazdi mostra di accettare le nostre spiegazioni, cioè che indagini estremamente accurate sono state compiute in Italia e che tutte hanno confermato la conclusione che Musa Sadr non è mai arrivato a Roma il 21 (31) agosto 1978 nonostante la messinscena che avrebbe dovuto provare il contrario. Yazdi mi dice che l'Iran non ha rapporti diplomatici con la Libia; la visita di Jallud l'altro giorno e la sua partecipazione ai funerali dell'ayatollah Motahari a Qom non hanno modificato questo stato di cose (proprio a Qom Jallud aveva ribadito la tesi libica che Musa Sadr aveva lasciato Tripoli, vivo, per Roma).

E ancora il 7 maggio: "Su istruzioni da Roma, ho dato ieri alla stampa un comunicato sul caso Musa Sadr, secondo le linee di quanto detto sabato a Yazdi. Agenzie e giornali iraniani lo riportano integralmente: "in rapporto con taluni articoli apparsi sulla stampa libanese ed iraniana, l'ambasciata d'Italia a Teheran informa che l'episodio concernente la scomparsa dell'Imam Musa Sadr nell'agosto 1978 , in particolare speculazioni circa un suo possibile ingresso o transito in Italia, sono stati oggetto di indagini estremamente accurate, come suggerito dalla delicatezza del caso.

Da parte italiana si è mostrata la massima disponibilità a cooperare, in tali indagini, con le competenti autorità di altri paesi. Tutti gli esiti dell'inchiesta escludono che l'Imam Sadr sia mai arrivato in Italia. Pertanto qualunque dichiarazione in senso diverso che venisse attribuita ad autorità italiane, è da considerarsi destituita di ogni fondamento": Tanto era delicata la questione della scomparsa dell'Imam che - annota Tamagnini - fu oggetto anche di discussione in occasione della riunione dei "nove" che periodicamente avveniva in Teheran tra gli ambasciatori.

Riferimenti alle dichiarazioni di Jalloud e Khomeini sulla scomparsa dell'Imam si rilevano dagli atti custoditi nell'ufficio del Consigliere diplomatico della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Presso la Comunità sciita libanese le affermazioni di Jalloud avevano provocato allarme tant'è che chiesero al nostro rappresentante diplomatico notizie sull'effettivo arrivo in Italia dell'Imam. In calce ad un messaggio dell'ambasciata d'Italia a Beirut del 28.04.79 si può leggere un'annotazione del Presidente del Consiglio Andreotti dal seguente tenore "Non riesco a capire tanti giochi di parole. Noi abbiamo fatto un'inchiesta e a quanto mi si disse possiamo essere certi che in Italia non è entrato. Lo si può dire con chiarezza e semplicità". Ma la vicenda non era semplice. Nei messaggi dell'Ambasciatore d'Italia a Tripoli, conte Marotta, si rilevano anche le forti pressioni che il Governo libico faceva sulla vicenda: "A questo punto Jalloud non ha mancato di svolgere un tentativo di forti pressioni, chiedendomi di far sapere a mio governo (ha nuovamente nominato Presidente Consiglio e Ministro Esteri) che conferma atteggiamento amichevole in questa questione importantissima per Libia e per me stesso non può non essere collegato a mantenimento e sviluppo di livello economico di relazioni Italia Libia". L'Ambasciatore dopo aver rilevato "che proprio quando libici sono in difficoltà possono essere pericolosi per forti interessi italiani", suggerisce di "negoziare" la comunicazione ufficiale richiesta da Jalloud sulla vicenda che avrebbe dovuto essere del seguente tenore "qualcuno che aveva i documenti di Musa Sadr arrivò effettivamente in Italia indipendentemente dalla reale identità di quelle persone". (v. messaggio 343 del 17.05.79 trasmesso dalla Presidenza Consiglio dei Ministri con foglio del 27.01.98)

Il diario dell'Ambasciatore Tamagnini, che riassume con dovizia di particolari il drammatico periodo del passaggio dei poteri dalla monarchia dello Scià alla repubblica islamica di Khomeini, si rilevano anche le preoccupazioni della nostra comunità in quel Paese a seguito dei sanguinosi eventi che caratterizzarono quel trapasso. Tant'è che l'Ambasciatore nel dicembre 78 organizzò un piano di evacuazione, al quale collaborarono il colonnello Arpino - attuale Capo di Stato Maggiore della Difesa sul quale s'e è più volte scritto - ed il tenente colonnello Romano, all'epoca in forza alla 46a Brigata Aerea di Pisa. In quei giorni giungeva a Teheran anche il colonnello Giovannone da Beirut. Evacuazione che inizierà con non poche difficoltà a mezzo di un C130 dell'AM. (v. "La caduta dello Scià - Diario dell'Ambasciatore italiano a Teheran (1978-1980) di Giulio Tamagnini - Edizioni Associate).

E' certo, pertanto, che l'Imam e i suoi accompagnatori non giunsero mai in Italia. Anzi v'è ragione di credere che essi mai hanno lasciato la Libia. E sul punto sono intervenute due provvedimenti che hanno entrambi archiviato il caso, affermando di poter escludere che l'Imam fosse mai giunto in Italia. Il primo in data 7 giugno 79, il secondo in data 28 gennaio 82. Quest'ultimo traeva origine dalla riapertura del procedimento richiesto dai libici. Tale riapertura non fu gradita dalla comunità sciita libanese, che non mancò di segnalare le proprie critiche al nostro Ambasciatore in Libano. L'occasione venne a seguito della rogatoria in Libia del PM di Roma, il quale secondo le informazioni da essi acquisite - così si legge in un messaggio dell'Ambasciatore d'Italia a Beirut - dopo essere "entrato in contatto con testimoni presentatigli da Governo libico, sarebbe rientrato in Italia persuaso che l'Imam Mousa Sadr ed i suoi due compagni sarebbero effettivamente giunti a Roma". La nota prosegue affermando che la circostanza non era stata "comunicata all'organizzazione sciita Amal per timore di reazione brutali ed incontrollabili da parte di quest'ultima nei confronti degli interessi italiani in Libano e sul nostro territorio nazionale". Al punto 4 del messaggio l'Ambasciatore segnala il chiaro messaggio che la Direzione politica sciita ha inteso comunicargli: "La Direzione politica sciita ha voluto dunque farmi sapere che essa non è disposta ad accettare che un governo occidentale offra una soluzione a Gheddafi per il caso Mousa Sadr. Attira pertanto la nostra attenzione sulle conseguenze che tutti gli sciiti (politici, militari e terroristi) trarrebbero da eventuali "cedimenti" in tal senso". Gli interlocutori libanesi spiegano anche i motivi della scomparsa "dovuta ad una volontà politica straniera volta a decapitare la direzione della più importante etnia libanese, in un momento in cui questa etnia si batteva contro i palestinesi nel Sud per conservare al sud il carattere libanese". Pertanto la scomparsa dell'Imam è per gli sciiti il prodotto di un complotto anti-libanese "quale che sia la sua matrice: Gheddafi, Arafat, Assad, e pertanto non poteva e non doveva trovare aiuto o "complici" in un Paese occidentale che si dichiarava amico del Libano (v. messaggio nr.607 del 26.11.80 dell'ambasciata d'Italia a Beirut trasmesso dalla Presidenza del Consiglio con missiva del 27.01.98).

La conflittualità nei rapporti tra l'Imam e Gheddafi emerge dalla memoria degli avvocati Sebastiano Vassalli e Pietro Lia agli atti del procedimento penale relativo alla scomparsa dell'Imam. Dopo un breve excursus sulla situazione socio-politico libanese e la guerra civile iniziata nella prima metà degli anni 70, causata da un lato dalla diversa visione della questione palestinese e dall'altra dalle mire israeliane, questi ultimi preoccupati delle propria sicurezza a causa dei confini con i paesi arabi, quel documento esamina l'attività che nel 61 l'Imam Musa Sadr, svolse a nome degli sciiti mussulmani libanesi. Egli di nazionalità e di educazione irachena, intimo di Khomeini, creò nel 70 il Consiglio Musulmano Sciita Superiore, in cui chiamò a far parte gli elementi più avanzati sul piano culturale ed economico, venendo così a diventare in breve tempo uno degli elementi di maggiore spicco e prestigio nel mondo arabo. Posizione questa che non gli permise di rimanere estraneo alle misteriose vicende del Libano. La nota prosegue sottolineando che "animato dal profondo desiderio di voler ristabilita la pace soprattutto nel sud-Libano, da una parte appoggiò e comunque si rifiutò di contrastare l'intervento e la permanenza dell'esercito siriano come forza militare di dissuasione e, dall'altra, tentò di ottenere, a sostegno di questo intento di pacificazione, l'appoggio degli altri Paesi arabi". Quindi la focalizzazione sulla causa del dissenso con Gheddafi: Nel corso del 75 egli aveva rifiutato il proprio consenso alla creazione di un esercito arabo palestinese che aveva nel colonnello Mohammar Gheddafi, presidente della repubblica islamica socialista libica, il suo principale sostenitore. Egli pensava, infatti, che una tale iniziativa, cui pure si confidava la funzione di un concreto sostegno operativo in appoggio alla causa palestinese, avrebbe aggravato la già drammatica situazione del sud-Libano ed avrebbe comportato, con la diretta ingerenza del Gheddafi, un ulteriore inasprimento della guerra civile e delle iniziative belliche israeliane nel sud della regione dove, accanto alle popolazioni sciite, convivevano le formazioni dell'Olp. Gli sforzi dell'Imam contribuivano alla convocazione dei due vertici arabi di Riad e del Cairo dell'ottobre 76, nel corso dei quali venivano delineate iniziative, intese, appunto, a far cessare la guerra civile ed i combattimenti nel Libano.

Ma quando tali iniziative stavano per dare i primi concreti risultati, pur se in altre zone del tormentato paese, esse furono poste nel nulla nel marzo del 78 dalla fulminea invasione appunto del Sud-Libano da parte delle forze israeliane. Solo a seguito del rapido intervento delle NU tali forze si ritirarono lentamente verso il vecchio confine, attestandosi, però, su una fascia di circa 10 km. allo scopo dichiarato di neutralizzare le incursioni dei guerriglieri palestinesi.

A seguito di tali nuovi, gravissimi eventi e delle rinnovate privazioni e sventure che ne erano seguite, Mousa Sadr pensò (nella primavera del 78) alla convocazione di un nuovo vertice arabo che riprendesse in esame ed avviasse a soluzione i gravi problemi già esaminati al Cairo e a Riad nell'ottobre del 76. Visitò l'Arabia Saudita, l'Iraq, il Kuwait, la Siria e l'Algeria. Quivi ebbe lunghi colloqui con il presidente algerino Hawari Boumedienne, somma autorità di quel paese e profondo conoscitore dei problemi del mondo arabo. A quanto risulta in tale occasione il presidente Boumedienne caldeggiò l'estensione dell'invito alla Libia. E poiché erano noti i contrasti tra l'Imam ed i governanti libici - specialmente in relazione alla questione dell'intervento siriano nel Libano - Boumedienne intervenne di persona presso il presidente Gheddafi. Furono così avviate trattative che portarono ad una intesa su un viaggio dell'Imam Mousa Sadr in Libia; ed il 24.08.78 il governo libico faceva pervenire all'Imam Sadr un formale invito, esteso ai suoi collaboratori, lo sceicco Mohamad Yacoub e il giornalista Abbas Badreddine (titolare di una avviata agenzia di stampa a Beirut), nonché tre biglietti aerei Beirut-Tripoli-Beirut, rilasciati da Middle East Airlines Airliban di Beirut" (v. atti del procedimento penale relativo alla scomparsa dell'Imam).

Ma il 79 è anche l'anno in cui la Libia accentua la connotazione rivoluzionaria del suo ordinamento politico-istituzionale. La funzione legislativa è assunta - a pieno titolo - dal "Congresso Generale del Popolo" che devolve il potere esecutivo ai "Comitati Popolari", mentre, l'amministrazione della Giustizia viene affidata ai "Tribunali Popolari", integrati dai "Comitati Rivoluzionari" costituiti da Gheddafi con l'intento di reprimere la corruzione e con il compito di controllare l'attività dei "Comitati Popolari". Per quanto concerne i rapporti internazionali, le rappresentanze diplomatiche nelle capitali estere sono trasformate in "Uffici Popolari".

Sempre nel corso del 79, sebbene all'inizio i rapporti tra Italia e Libia apparissero buoni, si hanno avvisaglie di problemi sempre più gravi e l'intesa fra i due Paesi entra in crisi. Motivo principale: la richiesta di risarcimento per i torti subiti durante il periodo coloniale italiano ed i danni cagionati nel corso dell'ultimo conflitto mondiale.

Tali contrasti però non intaccavano minimamente i rapporti commerciali tra i due Paesi, tant'è tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo del 1980 il Ministro del Commercio con l'Estero, Stammati, si reca in visita a Tripoli per definire alcuni accordi di cooperazione economica, scientifica e tecnica. Il Ministro, nell'occasione, viene accompagnato dal generale Jucci che confermava "l'interesse libico a ricevere maggior assistenza anche nel settore militare". Da un biglietto dell'ufficiale di collegamento del S.I.S.MI al MAE, per la visione al Direttore del S.I.S.MI, datato 04.03.80, allegato alla fotocopia di un appunto datato 03 marzo 80 e diretto all'attenzione del Ministro degli Affari Esteri, al tempo l'on.leRuffini, relativo alla missione di Stammati in Libia, si rileva la perplessità dell'ufficiale nell'apprendere che il generale Jucci aveva accompagnato il Ministro a Tripoli, precisando, altresì, di non avere altri elementi sullo scopo della missione del generale.

8. Le uccisioni dei dissidenti libici in Italia.

Il 1980 è l'anno in cui la dissidenza libica in Europa ed in modo particolare nel nostro Paese subisce da parte del regime di Gheddafi colpi durissimi. Il leader libico nel corso di una cerimonia avvenuta il 27 aprile presso l'Accademia Militare di Tripoli lancia un ultimatum per il rimpatrio dei fuoriusciti, ultimatum che fissa, come data ultima per il rientro in Patria, il giorno 11 giugno 80. Il 3 maggio un membro del "Comitato Popolare" della Rappresentanza libica a Roma, nel corso di una conferenza stampa, dichiara esplicitamente che i libici residenti all'estero saranno giustiziati se non avranno fatto rientro in Libia entro il 10 giugno. Alla fine di maggio il Capo dell'Ufficio Popolare libico per le Rappresentanze Diplomatiche estere, prof. Shahati, convoca separatamente gli Ambasciatori della CEE accreditati a Tripoli, cui rivolge la richiesta del Governo di Tripoli volta ad ottenere la consegna degli oppositori libici residenti nei Paesi CEE, minacciando, in caso di rifiuto, ritorsioni sui rapporti commerciali bilaterali e sulle stesse comunità di detti Paesi presenti in Libia.

La data scelta come scadenza dell'ultimatum è significativa per il leader libico, in quanto essa cadeva nel decimo anniversario della cacciata degli americani dalla base libica di Wheelus Field. Di conseguenza emissari dei Servizi Speciali libici vengono sguinzagliati in Europa con due scopi: il primo di convincere i dissidenti a rientrare in Libia; il secondo, in caso di rifiuto, di eliminarli fisicamente. Ed in effetti solo in Italia si avrà una catena di attentati fino all'11 giugno in cui perderanno la vita cinque cittadini libici, e due la rischieranno.

Ovviamente tale attività terroristica determina sul versante italiano una maggiore attività di controllo sui cittadini libici presenti nel territorio nazionale; attività questa che provocherà, da parte libica, varie proteste, rappresentate anche per via diplomatica. Difatti da una fotocopia di un telex acquisito dal carteggio esibito dal S.I.S.MI, datato 21 maggio 80 e classificato "Segretissimo", probabilmente proveniente dall'ambasciata d'Italia a Tripoli, e su cui è apposta a matita l'annotazione "Inc. Affari Cardilli", si rileva la protesta libica nei confronti del Governo italiano da parte del Segretario dell'Ufficio Relazioni Estere, Ahmed Shahati, alla catena di arresti e controlli seguiti alla uccisione dei dissidenti libici in Italia. Dissidenti definiti dal diplomatico libico "criminali usurpatori di ricchezze del popolo, nemici della rivoluzione circolano impunemente in Italia, ove, protetti da connivenza Autorità svolgono attività antilibica". Il rappresentante libico teneva anche a sottolineare che "se costoro non saranno riconsegnati al popolo libico verranno prese very strong measures contro Italia e contro malfattori. Autorità italiane dovranno sopportare conseguenze di loro scelte"

Il tono perentorio ed anche ricattatorio di Shahati, preoccupa non poco l'estensore del telex, il quale in altro messaggio riferisce che "difficilmente si può adottare atteggiamento di durezza senza antevederne conseguenze e senza aver preso preventive precauzioni, piano sul quale almeno in Libia, per quanto riguarda comunità italiana ed interessi economici nazionali e di laboriosa industria privata siamo particolarmente esposti ... . Nè si potrebbe rifiutare alcune richieste libiche solo perchè abitualmente distanti da nostra mentalità forgiata da diritto romano, senza esplorare possibilità di addivenire a qualche forma concessioni minime reciproche". (v. atti S.I.S.MI da 93 a 99, decreto esibizione del 30.03.96)

Nel frattempo si intensificano i rapporti con il Rappresentante del Servizio Informazioni libico in Italia, Mousa Salem. Dopo la prime esecuzioni, quest'ultimo fa richiesta al S.I.S.MI - al fine di calmare le iniziative esecutorie di Gheddafi nel nostro Paese e di evitare un taglio alle forniture di petrolio e finanche un inasprimento dei rapporti tra i due Paesi - di un elenco di tutti i libici che soggiornano in Italia e delle ditte di cui sono soci cittadini libici. (foglio 2300/IV dell'8.04.80, decreto esibizione, 30.03.96).

Mousa Salem non è nuovo a questo genere di richieste. Già nell'agosto del 79 il S.I.S.MI gli aveva già fornito una prima lista di cittadini libici residenti a Roma ed in quell'occasione Mousa Salem Salem aveva, a sua volta, consegnato al Direttore del S.I.S.MI un elenco di cittadini libici di cui il Governo libico avrebbe gradito l'espulsione (v. foglio n.4581/4 del 13 agosto79). Una seconda lista di dissidenti libici veniva fatta recapitare dal Capo del Servizio, generaleGiuseppe Santovito, a Mousa Salem in data 14.02.80 (v. foglio Z/566/IV del 26 febbraio 80) ed una terza veniva consegnata - sempre su disposizione del Direttore del S.I.S.MI - a Mousa Salem in data 29 marzo 80 (v.foglio n.2227/4 del 2 aprile 80).

Il Servizio ha tentato di sostenere che in realtà erano state comunicate soltanto notizie sui dissidenti che si erano oramai allontanati dall'Italia o che comunque erano stati avvertiti del pericolo che incombeva su di loro - come se ce ne fosse stato bisogno. Va invece rilevato che fu assassinato Aruf Abduljalil Zaki, compreso nella lista consegnata il 2 aprile 80. Il libico, secondo una nota del Raggruppamento datata 24.04.80 sarebbe stato avvertito. Invece sarà ucciso proprio in via Veneto, luogo indicato nella nota come suo domicilio. Verrà anche ucciso - come si vedrà più innanzi - Ladheri Azzedine, anch'esso ricompreso nella lista.

In tale periodo è in carica il secondo Governo Cossiga, al quale il S.I.S.MI non manca di comunicare la delicata questione delle pretese libiche sulla presenza di dissidenti in Italia. La questione viene affrontata più volte con il Presidente del Consiglio, anche in sede di CIIS. In particolare, nel corso della riunione tenutasi in data 21 maggio 80, il sottosegretario on.le Mazzola rilevava il problema dei cittadini libici presenti in Italia, dei quali, da parte libica, si reclamava l'individuazione e l'espulsione dall'Italia, chiedendo al CESIS di preparare un approfondimento del problema. Il Presidente on.le Cossiga sottolineava che "malgrado le complesse relazioni intercorrenti con la Libia, non può tollerarsi il verificarsi di attentati nel nostro Paese" e che " devono promuoversi tempestivamente le conseguenti procedure giudiziarie, anche per disporre di eventuali futuri argomenti di trattativa" (v. verbale CESIS decreto esibizione al Cesis del 30.06.95).

Sulla minuta del verbale della riunione, vergata dal Segretario generale del CESIS, Walter Pelosi, si rileva nell'intervento del Presidente Cossiga, relativamente alla questione concernente l'espulsione dei libici dall'Italia, la seguente annotazione "Prima dei provvedimenti di espulsione dei cittadini secondo le richieste di Gheddafi, i Min. compet. devono avere una visione generale del problema".Tanto a riprova che le richieste di Gheddafi, in linea di massima, venivano accolte.

L'accondiscendenza dei Servizi italiani non era sfuggita alla dissidenza libica. Il 7 maggio 80 l'ufficio dell'Addetto militare al Cairo trasmetteva al S.I.S.MI un dispaccio dell'agenzia di stampa egiziana "Cairo Press Review" riportante una notizia pubblicata dal quotidiano egiziano "Al Akhbar", in cui veniva fatto riferimento a collusioni tra il Servizio informazioni e il regime di Gheddafi nella cattura dei dissidenti libici e nella loro deportazione in Libia. Ma già in precedenza la dissidenza libica in Egitto aveva mosso accuse contro il nostro Paese per aver tollerato le attività del Governo libico contro la presenza degli esuli e degli avversari al regime gheddafiano in Italia. Difatti il 21 aprile precedente era stata inviata al Capo dello Stato, Sandro Pertini, ed a varie autorità, una missiva a firma della Lega Internazionale libica in Egitto, nella quale venivano rivolte accuse, in particolare, alla Polizia di frontiera, accusata di agevolare il rimpatrio di cittadini libici dissidenti che venivano all'uopo imbarcati direttamente senza le necessarie formalità di rito. Veniva anche fatto riferimento al rapimento di alcuni giovani libici alla stazione centrale di Roma ed al pestaggio di altro libico Soliman Daham in un appartamento del centro di Roma.

Il S.I.S.DE interessato in merito alla vicenda riferiva alla Presidenza del Consiglio con missiva del 22 maggio 80, in cui dopo aver precisato che nulla risultava in relazione al rapimento di giovani all'interno della stazione ferroviaria di Roma, affermava che invece vi era notizia di un "rimpatrio forzato" (virgolettato nel testo) di certo Mustafà Ahmed Duella, ma in epoca temporale successiva alla missiva inviata al Capo dello Stato. Il Servizio dava conferma che Suleiman Dahan, venne effettivamente aggredito, in data 14.07.78, da quattro rapinatori introdottosi nella sua abitazione romana. In tal senso il libico aveva presentato denuncia alla polizia e solo recentemente, dopo essersi nel frattempo trasferito in Marocco, avrebbe asserito che i suoi aggressori non erano rapinatori bensì agenti libici. Suleiman è un noto giornalista di opposizione ed era da considerare verosimile che fosse tra gli obiettivi dei servizi speciali libici (v. atti trasmessi dalla Presidenza Consiglio dei Ministri in data 18.06.96).

E' possibile rilevare la differenza dei rapporti e della gestione della delicata vicenda sulla presenza della dissidenza libica nel nostro Paese e sul contrasto alle attività terroristiche messe in atto dal Governo di Tripoli, dalle diversità di atteggiamenti e risposte, assunti dai Governi europei nei confronti del fenomeno. Il Governo britannico dopo gli omicidi di due dissidenti libici dispose il rimpatrio di quattro membri "dell'Ufficio Popolare" libico di Londra ritenuti coinvolti negli omicidi; tale misura veniva adottata a seguito dell'acquisizione da parte della magistratura inglese di elementi probatori sulla implicazione dei predetti in "attività incompatibili con le loro funzioni". A titolo precauzionale Londra riduceva drasticamente l'organico del personale in servizio presso l'ambasciata di Tripoli, nonostante la presenza in Libia di circa 6.000 connazionali. Analoghe misure di espulsione erano adottate negi Stati Uniti nei confronti di quattro membri "dell'Ufficio Popolare" libico a Washington, mentre si disponeva il totale rientro del personale statunitense in servizio a Tripoli. Da parte sua, il Governo di Bonn decideva di aggiornare "sine die" la progettata visita del colonnello Gheddafi nella Repubblica Federale Tedesca (v. appunto S.I.S.MI decreto esibizione 30.06.96).

In un appunto del CESIS del 5 giugno 80 viene fatto riferimento all'isola di Malta come importante centro di smistamento del terrorismo libico contro la dissidenza: "Il Governo di Tripoli, infatti, al fine di perseguire e realizzare il predisposto disegno in un contesto che escludesse l'insorgere di facili sospetti ed assicurasse alle azioni criminose una adeguata copertura, aveva da tempo disposto l'aggregazione presso le rappresentanze diplomatiche all'estero di appartenenti ai Servizi segreti speciali e l'invio di elementi itineranti, incaricati di soggiornare in territorio straniero per il tempo strettamente necessario alla esecuzione delle azioni terroristiche: in tale quadro, sarebbe stata accertata l'esistenza in Malta di un centro di smistamento di terroristi addestrati in Libia per compiere attentati all'estero contro gli oppositori del regime".

Sempre nello stesso documento si legge che "la situazione in Libia denuncia oggi aspetti molto preoccupanti a causa degli eccessi sul piano interno ed internazionale del rinnovato spirito rivoluzionario del presidente libico: nel contesto di tale situazione, peraltro suscettibile di imprevedibili sviluppi, il Ministero degli Affari Esteri non ha mancato di valutare se, considerata la "esposizione" italiana in quel paese, sia opportuno scegliere la strada di un ripiegamento: è stato, in proposito, espresso l'avviso che una tale scelta, oltre che tardiva e rischiosa, sarebbe soprattutto sconsigliabile, se si tiene conto dell'ampio favore con cui, nonostante l'evolversi degli eventi, autorevoli esponenti libici guardano all'insostituibile apporto di esperienze e di cooperazione tecnica che la presenza dei paesi occidentali assicura e garantisce allo sviluppo del loro Paese.

La presenza italiana in Libia, ridotta nel 70 ad entità minime per la disposta espulsione di tutta la nostra vecchia collettività, è andata negli anni successivi gradualmente ricostituendosi fino a raggiungere la consistenza attuale di circa 16.000 connazionali, più o meno equamente distribuiti tra Cirenaica e Tripolitania, con leggera prevalenza per la area della capitale.

In particolare, l'Agip ha effettuato in Libia investimenti pari a 463 milioni di dollari e scoperto interessanti giacimenti petroliferi, alcuni dei quali prossimi alla fase produttiva; tenuto conto, quindi dell'aumentata produttività dei giacimenti scoperti negli ultimi tempi, l'Agip potrebbe ritirare fino a 500 mila b/g nel giro di 4 anni. L'azienda predetta ha, altresì, elaborato per i libici un progetto per la costruzione di un gasdotto per il trasporto di gas in Italia.

Le nostre importazioni hanno nel 79 raggiunto 2.144 miliardi di lire con un incremento del 47,3% rispetto all'anno precedente e le esportazioni, ammontate nel decorso anno a 1.600 miliardi di lire, hanno registrato un aumento del 44,4% rispetto al 78; notevole e costante si presenta anche l'aumento delle commesse acquisite da imprese italiane in Libia. Considerato che i nostri connazionali sono quasi tutti dipendenti di società - in numero di circa 130 -, il Ministero degli Affari Esteri ritiene che, ove un preciso sentore di deterioramento della situazione ne suggerisse il rimpatrio, non insorgerebbero quelle remore psicologiche o quelle problematiche complesse comuni alle vecchie collettività residenti, restie generalmente ad abbandonare posizioni di interesse singolarmente e faticosamente acquisite, ma si verificherebbe una rapida, naturale e non traumatica contrazione delle presenze, così come è avvenuto per gli italiani residenti nell'Iran.

Al fine, comunque, di garantire la dovuta sicurezza e la necessaria assistenza ai nostri connazionali nella ipotesi che eventuali sviluppi della situazione in Libia dovessero suggerirne il rimpatrio, il Ministero degli Affari Esteri ha impartito direttive all'Ambasciatore a Tripoli perché, in via preventiva, vengano predisposte alcune misure precauzionali atte a fronteggiare organicamente ogni possibile emergenza. In particolare, è stato suggerito di: accertare nel modo più accurato possibile la consistenza e la distribuzione geografica della nostra collettività; predisporre una idonea rete di comunicazioni che dall'ambasciata dirami eventuali avvisi di emergenza; organizzare collegamenti sicuri e indipendenti dai servizi locali tra ambasciata e ministero e tra ambasciata e i principali cantieri delle Società italiane presenti in Libia; allestire uno e o più centri di raccolta per l'afflusso dei connazionali da rimpatriare; individuare i mezzi di trasporto per il ripiegamento della collettività, prevedendo anche l'impiego di aerei dell'Aeronautica Militare; concordare, se del caso, con i governi dei Paesi confinanti l'attraversamento della frontiera".

La minaccia era quindi seria e grave cioè difficile a sostenersi da parte di un Paese debole; impossibile per un Paese bisognoso di petrolio liquido per il quale, dapperutto, si fanno le cose più sporche, dalle guerre ai cedimenti ai più feroci ricatti.

Infine il S.I.S.MI, in data 9 giugno 80, alla vigilia della scadenza dell'ultimatum trasmette, all'attenzione del Presidente Cossiga, un appunto sulla situazione libica in Italia, nel quale sono ricostruite le vicende più salienti nei rapporti tra i due Servizi di Informazione e viene sollevata nel contesto la problematica relativa alla presenza della dissidenza libica nel Paese, concludendo che il problema non può che risolversi "al di fuori degli schemi tradizionali e consentiti" ed abbisogna del "supporto politico che appare più che mai necessario, per affrontare quegli aspetti che, istituzionalmente, sono collocati al di fuori dei compiti e delle prerogative del Servizio" (v. appunto n.12898/1/04, 09.06.80, decreto esibizione 30.03.96)

La risposta libica allo scadere dell'ultimatum è puntuale. Il giorno 11 giugno 80, alla stazione ferroviaria di Milano è ucciso il cittadino libico Ladheri Azzedine, mentre a Roma viene posto in essere un attentato a danni di tal Mohamed Saad Bigt, anch'esso libico.

A questo punto appare necessario ripercorrere la lunga scia di sangue cagionata dagli emissari gheddafiani sul territorio dello Stato a partire dal primo delitto.

Come già sopra accennato il colonnello Gheddafi aveva lanciato un proclama di "invito" per i libici all'estero a rientrare in patria, fissando anche una data ultimativa, quell'11 giugno immediatamente successivo, decennale della espulsione degli Americani. L'"invito" concerneva ovviamente la dissidenza, che con la sua opposizione al regime più o meno attiva infastidiva il governo di Tripoli, e la data finale in esso fissata per il rientro appariva un vero e proprio ultimatum, la cui sanzione non avrebbe potuto esser diversa dalla pena capitale, come provato da quel che incorse ai più di coloro che non rispettarono quel proclama.

Quel regime colpì in effetti ovunque in Europa dimoravano od operavano libici. Gli attentati si verificarono in quel semestre, oltre che in Italia, in Germania, nel Regno Unito ed in Grecia. In Germania veniva ucciso il 10 maggio Omram el Medawi, ex diplomatico passato all'opposizione; nel Regno Unito il 25 aprile l'avvocato Mahmoud Nafa, oppositore e dirigente del Movimento filomonarchico; e in Grecia il 21 maggio l'oppositore Abdel Rahman Abu Baker.

In Italia gli attentati furono, come s'è detto, ben sette; cinque comportarono la morte dei libici obiettivo dell'azione, due il ferimento. In conseguenza di tali delitti furono catturati sette cittadini libici; di questi sei furono scarcerati nell'ambito di breve se non brevissimo tempo; il restante morì in carcere per causa naturale. Soltanto un imputato, contumace, fu condannato per il reato ascrittogli. Già questo semplice prospetto indurrebbe per sè a considerazioni amare sulla giustizia in tali processi. Ma a più ne induce un esame specifico dei fatti e dei seguiti giudiziari.

Il primo attentato fu commesso a danni di Ritemi Salem Mohamed. Costui imprenditore in Italia in materiali edili, così come lo era stato nel suo Paese di origine, prima che il regime di Gheddafi sequestrasse, nell'autunno 78, tutti i suoi beni immobili e mobili e lo costringesse, avendogli proposto di lavorare alle dipendenze dello Stato, all'espatrio, era scomparso dall'albergo "Commodore" di Roma, ove di solito risiedeva, nei giorni della terza decade del febbraio. Fu rinvenuto cadavere il 21 del marzo successivo all'interno del portabagagli dell'autovettura di sua proprietà parcheggiata in viale Castro Pretorio. Il 22 aprile fu arrestato per sequestro di persona, omicidio e favoreggiamento il concittadino dell'ucciso Marghani Mohamed Meguahi. Il 16 agosto costui fu scarcerato per mancanza di indizi. Il procedimento si concludeva nella fase istruttoria il 4 giugno 81 con il suo proscioglimento dai primi due delitti per insussistenza del fatto, ed il rinvio al giudizio per il terzo. Nella motivazione del provvedimento più che interessanti notazioni di questo Ufficio". Per quanto le indagini siano state ostacolate dall'intervallo di tempo decorso fra la scomparsa di El Ritemi ed il rinvenimento del cadavere, pur tuttavia non può tralasciarsi di considerare come la matrice del fatto vada ricercata in ambienti ostili agli esuli libici come sembra dimostrato da altri omicidi e tentati omicidi verificatisi successivamente ... nè può trascurarsi la circostanza che la salma del Ritemi che era stata inviata in Libia per la tumulazione assieme a quella di altro ucciso a Roma (Aref Galih) sono state fatte rientrare in Italia in quanto pertinenti a persone non desiderate. ... . Con riferimento specifico alla posizione del Marghani vanno altresì tenuti presenti i segnalati contatti con appartenenti ai Servizi speciali libici...".

Il secondo attentato fu commesso a danni di Abduljalil Zaki Aref il 19 aprile al "Cafè de Paris" di via Veneto in Roma. Colui che era stato arrestato nella quasi flagranza, altro cittadino libico, tal Uhida Youssef, affermò sin dalle prime dichiarazioni di aver ucciso il connazionale in nome di una organizzazione libica filogovernativa, rappresentata da tal Mohamed Alì Fazzan autista al porto di Tripoli; che Aref era un nemico del popolo, aveva complottato in patria contro Gheddafi ed aveva continuato tale attività contro il regime anche dopo l'espatrio all'estero; che aveva incontrato la sua vittima sei giorni prima del delitto e l'aveva invitata a far ritorno in patria. Dinanzi all'AG egli esplicitamente ribadì: "... Da Parigi mi sono spostato a Roma solo ed esclusivamente per uccidere Aref Abdul Giaidli. Ieri sera ho esploso più colpi di pistola contro l'Aref con l'intenzione di ucciderlo, omicidio che peraltro avevo lungamente premeditato. L'Aref era un nemico del popolo libico e ciò io sapevo...Peraltro l'Aref era parente di Omar El Maeggi e cioè di uno dei capi di una organizzazione che nel 71 aveva tentato di destituire Gheddafi. Amando Gheddafi perchè ha dato il potere al popolo libico, mi sono sentito in dovere di uccidere Aref... . Quando incontrai l'Aref la prima volta gli dissi "o torni in Libia o stai zitto nel senso che non devi mai parlare male della mia patria. L'Aref mi rispose che sarebbe tornato in patria quando voleva. A questo punto lo avvertii che se non fosse tornato in Libia avrei proceduto al suo omicidio...".

Come detto la salma di Aref insieme a quella di Gialili venne rispedita in Italia il 30 aprile di quell'anno con volo delle linee nazionali libiche all'aeroporto di Fiumicino in due casse di legno che emanavano forte odore nauseabondo. Da lettera di accompagnamento e da targhette apposte sulle casse, esse avrebbero dovuto contenere i resti mortali di Mohamed Salem Ritemi e di Aref Gialili Abdul assassinato negli ultimi tempi a Roma.

La Corte d'Assise condannò l'Uhida alla pena dell'ergastolo, avendo escluso sia l'esimente dell'esecuzione di ordine dell'Autorità libica - nella specie i Comitati Rivoluzionari Libici, che avrebbero emesso la sentenza di morte e pagato le spese dell'esecuzione - sia le attenuanti del particolare valore morale dell'atto e quelle generiche. Di questa pena il condannato - e non è poco per casi del genere - sconta fino al 5 ottobre '86, data in cui viene posto in libertà.

Il terzo attentato fu commesso a danni di El Khazuni Abdallah il 10 maggio. L'omicidio fu compiuto all'interno del bar dell'albergo Torino di via Principe Amedeo a Roma. Gli uccisori furono descritti dai testimoni come di razza araba, probabilmente connazionali della vittima. Per favoreggiamento fu arrestato il cugino El Khazuni Mohamed Falhi, anch'esso di cittadinanza libica. Si accertava, grazie alla testimonianza della moglie dell'ucciso, che costui era un "collaboratore dei Servizi segreti libici" ed aveva rinnovato a suo cugino, proprio il giorno precedente all'assassinio, l'invito a lavorare per quei servizi prospettandogli i vantaggi della scelta, quali la libertà di partire dalla Libia e rientrarvi a piacimento, e la possibilità di guadagnare uno stipendio.

Il Giudice Istruttore prosciolse però il 24 novembre l'imputato giacchè a suo discarico i Servizi di Sicurezza italiani avevano dichiarato "di non essere a conoscenza del fatto che il prevenuto appartenesse ai Servizi Segreti libici". Ma v'è di più: nonostante l'accusa d'essere a conoscenza dei nominativi degli assassini e di altre circostanze relative al delitto, il Khazuni era già stato posto in libertà provvisoria il 20 giugno, ad appena un mese e nove giorni dall'arresto.

Il quarto attentato fu commesso a danni di Boujar Mohamed Fuad a soli dieci giorni dopo il terzo, e cioè il 20 maggio. L'omicidio fu compiuto all'interno della pensione Max in via Nazionale 46. La vittima fu uccisa con numerosi colpi di arma da punta e taglio al torace e al basso ventre e mediante strangolamento con corda di nylon.le Sul corpo dell'assassinato fu rinvenuto un tovagliolino di carta, su cui era scritto: "Il nome di Dio è grande, il 1° Settembre esiste. Chi scappa via dal Paese, i comitati popolari ti ritrovano ovunque. Viva il 1° Settembre e i comitati rivoluzionari libici in Roma". Nonostante le convincenti argomentazioni del Pubblico Ministero che specie nei motivi di appello della prima sentenza assolutoria dell'imputato Abdelkader Alì Zedan per insufficienza di prove - l'ucciso era un fuoriuscito dalla Libia, il cui regime aveva requisito gran parte dei suoi averi; il Boujar si era rifugiato in Tunisia, ove aveva intrapreso attività commerciale di sicuro successo economico; il figlio di Boujar aveva disertato l'aviazione militare libica ove militava. Nella stanza ove era stato perpetrato l'omicidio, condivisa dalla vittima, il di lui figlio e l'imputato, mancavano i vestiti dell'Abdelkader. Costui subito dopo i fatti si era reso irreperibile, abbandonando l'Italia senza ragionevoli motivi. Il Boujar durante la sua breve permanenza a Roma aveva mostrato più volte sentimenti di preoccupazione per la propria incolumità personale. Uno dei mezzi adoperati per la complessa manovra omicida, cioè il legaccio, era stato acquistato due giorni prima dell'uccisione del Boujar proprio dall'Abdelkader senza alcuna plausibile od apparente ragione. Detto Abdelkader, deve da ultimo considerarsi, aveva proprio il pomeriggio del fatto appuntamento presso la Max con il Boujar - sosteneva che la venuta in Italia dell' Abdelkader era una vera e propria missione di morte, che quell'omicidio era una delle tante "esecuzioni" perpetrate in quel periodo dal regime gheddafiano a danni degli oppositori fuoriusciti, che il biglietto in lingua araba inneggiante alla rivoluzione del colonnello Gheddafi, rinvenuto sul cadavere dell'ucciso, anzichè apparire quale maldestro tentativo di depistaggio, si presentava come firma indiscutibile dell'autore del delitto come della sua matrice "politica"; nonostante, si diceva, tali argomentazioni, la Corte d'Assise d'Appello confermava il proscioglimento dubitativo.

Il quinto attentato fu commesso addirittura il giorno seguente a quello del quarto - segno dell'accelerarsi della progressione in prossimità della scadenza - a danni di Mohamed Salem Fezzan, ovviamente libico. Costui fu affrontato all'uscita del ristorante "El Andalus" sito in via Farini di cui era proprietaria la moglie, da un uomo armata spalleggiato da un secondo apparentemente senza armi in mano. Quegli che impugnava la pistola esplose alcuni colpi all'indirizzo del Fezzan; costui rientrò di corsa nel locale e qui l'altro esplose contro di lui altri due colpi. Nessuno dei proiettili raggiunse però il Fezzan, che peraltro riportò lesioni per essere caduto per le scale d'ingresso mentre tentava di rifugiarsi all'interno del ristorante. Il primo di coloro che sarà imputato, tal Belgassem Mansur Mezawi, fu arrestato nella quasi flagranza all'angolo tra via Farini con via Manin, mentre correva verso via Gioberti. Costui dopo aver a lungo negato ammise infine di essere andato a mangiare nel ristorante "El Andalus" dopo essersi procurato una pistola, e di avere sparato, asserì, non per uccidere, ma soltanto ritenendosi in pericolo per incutere timore ad uno sconosciuto che lo aveva guardato con ostilità tenendo una mano in tasca. Questa tesi difensiva è stata totalmente smontata dalla sentenza della Corte d'Assise che ha provato l'animus necandi, evidenziando anche le modalità di esecuzione, proprie di una buona esecuzione del "lavoro" avuto in carico. La Corte ha motivato anche, e con precise specificazioni - al punto tale che merita riportare per esteso la parte relativa - la causale del delitto.

I difensori hanno svolto due tesi alternative per cercare di individuare la causale del delitto. La prima tesi è stata per comodità chiamata "l'ultimatum di Gheddafi" anche se gli stessi difensori hanno tenuto a dire che i termini sono suggestivi ma imprecisi in quanto il colonnello Gheddafi è estraneo alle strutture esecutive del potere statale il Libia. "L'ultimatum fu dettato dai Comitati rivoluzionari, le cui decisioni sono obbligatorie per tutti i cittadini libici, e si svolse in due fasi. La prima fase fu attivata con una massiccia opera di persuasione al rientro in Libia diretta non a tutti i libici dimoranti all'estero ma a determinate persone nemiche della rivoluzione libica o autrici di reati commessi in Libia. Al Governo italiano venne, persino, presentata una lista di cittadini libici di cui si chiedeva la espulsione dall'Italia mancando lo strumento giuridico più idoneo e cioè un trattato di estradizione. La seconda fase scattò in molti casi in cui l'invito a rientrare in Libia non aveva sortito effetto alcuno. Un difensore, elegantemente e testualmente, ha detto che, nella seconda fase, "... la sanzione costituiva la estrema ratio ..." ma non ga spiegato cosa si dovesse intendere per sanzione. La stampa italiana, nel passato ed a proposito di fatti di sangue che coinvolgevano cittadini libici in Italia ed in altri Paesi europei, ha parlato con termini suggestivi e forse non strettamente precisi dei "killers di Gheddafi" lasciando comprendere che "la sanzione della seconda fase era una condanna a morte eseguita da libici anche fuori del territorio della Libia".

Sempre secondo i difensori, se Belgassem Mansur Menzarwi deve o può essere definito un esecutore di ordini nella seconda fase "dell'ultimatum", considerati i poteri dei Comitati rivoluzionari e la considerazione dell'imputato quale "servus dello Stato libico", la Corte avrebbe dovuto applicare l'art. 51 2° co. C.P. assolvendo l'imputato per avere eseguito un ordine legittimamente impartitogli.

La seconda tesi difensiva prende le mosse dalla affermazione che, nel caso di Fezzani Mohamed Salem, non sussiste alcuna delle condizioni già menzionate perché costui potesse essere compromesso nella lista degli uomini ai quali vennnero applicate le due fasi "dell'ultimatum di Gheddafi". Fezzani non era "un uomo del rientro mancato" e ciò, tra l'altro, è dimostrato dal fatto che Fezzani si recava frequentemente in Libia e manteneva buoni rapporti personali e di lavoro con i funzionari dell'ambasciata della Libia in Roma e, poi, con quelli dell'organo sostitutivo dell'ambasciata (Comitato Popolare Libico).

Sempre secondo i difensori, lo zelo e la suggestione di una rivoluzione "... che avrebbe consegnato il potere a ciascun cittadino" avevano male consigliato il giovane Belgassem Mansur Mezarwi. Costui, di propria iniziativa, aveva voluto indagare sul conto di Fezzani, uomo con "due facce", nella speranza di poter acquisire benemerenze rivoluzionarie. La difesa ha ricordato che lo stato di esaltazione non giova alla lucidità di pensiero dell'uomo. Per questa ragione, Belgassem Mansur Mezarwi aveva ritenuto che Fezzani stesse per aggredirlo; aveva conseguentemente sparato non tanto per difendersi quanto per intimorire l'avversario.

In conclusione, il tentativo di omicidio non sussiste per carenza di volontà omicida e di movente.

Questa seconda tesi sviluppa le ultime dichiarazioni di Belgassem e la Corte deve valutarla alla luce delle circostanze di fatto e delle logiche conseguenze che ne discendono senza dimenticare l'esatto contenuto delle affermazioni dell'imputato.

Secondo Belgassem Mansur Mezarwi e le voci da lui raccolte da fonti troppo genericamente lecalizzate "nell'ambiente dei commercianti", Fezzani era un uomo che lodava le autorità quando stava in Libia e le criticava quando era lontano dal suo Paese. Neanche l'imputato ha insinuato che Fezzani fosse un violento o frequentasse persone affiliate ad un qualsiasi movimento che predicasse la lotta armata nei confronti del governo libico.

Belgassem Mansur Mezarwi vuole controllare se il ristorante di Fezzani, presentato come un modesto ed incauto chiacchierone, sia frequentato da "nemici del governo libico" e per questo, a suo dire, si premunisce procurandosi una pistola.

La natura del controllo e la precauzione adottata poggiano su piani logici e razionali molto distanti tra loro.

Belgassem Mansur Mezarwi, sempre seguendo la traccia delle sue affermazioni, è un piccolo commerciante che non conosce personalmente Fezzani; che non è da costui conosciuto e che non è mai entrato, prima di quella sera nel ristorante El Andalus. In altre parole, è un comune giovane libico sconosciuto che si reca a mangiare in un ristorante frequentato da persone di lingua araba. La logica suggerisce la inutilità di intaccare una non ingente somma destinata a proficui commerci per comprare una pistola in un Paese che, per di più, non consente certi traffici. Belgassem Mansur Mezarwi alias Amer Abdelgasem non lo può ignorare.

L'imputato constata che nel ristorante è tutto tranquillo e che nessuno pronuncia discorsi offensivi o pericolosi per il suo governo. Anche quando esce dal locale nessuna circostanza denuncia un pericolo o persino una insignificante anormalità tanto che il giovane libico, prima così sospettoso, si avvicina a "due signori" usciti proprio da quel ristorante ed a lui sconosciuti, per raccontare loro che non è riuscito a trovare un taxi. Basta, però, che il suo ignoto interlocutore infili una mano in tasca perché lui si metta a sparare. Belgassem Mansur Mezarwi sostiene di avere sparato in aria.

I riscontri oggettivi lo smentiscono, come è stato già scritto; la sua fantasia, costretta in breve spazio dalla realtà, offende senza ritegno il buon senso più elementare.

L'imputato ha sparato per uccidere un uomo che non conosceva e che non gli aveva fatto alcun torto; non è stato provocato; non c'è stata una discussione; non è stata detta una parola se non con riferimento ad un tazi che non arrivava; nulla nella condotta di Fezzani poteva indurre altri a ritenere, anche per errore di valutazione, che una offesa di qualsiasi natura fosse imminente perché nulla Fezzani aveva fatto o stava per fare se non muoversi per tornare tranquillamente a casa sua.

Tutte queste circostanze denunciano chiaramente che Belgassem Mansur Mezarwi si era recato in via Farini per uccidere un uomo a lui perfettamente sconosciuto in esecuzione di un incarico criminoso che gli era stato affidato.

Non c'è necessità di aggiungere parole sul fatto e sulle sue motivazioni."

Il sesto attentato fu commesso, a venti giorni di distanza, proprio l'11 giugno data di scadenza dell'ultimatum di Gheddafi, a danni di Barghalì Mohamed Saad, anch'esso libico. Il delitto fu compiuto all'interno dell'abitazione della vittima, in via Accademia degli Agiati a Roma. Il Barghalì, che pure era stato raggiunto da più colpi di arma da fuoco di cui uno alla regione temporale-parietale destra con foro di uscita alla regione retroauricolare, riuscì a sopravvivere e a riferire i fatti. Colui che lo aveva aggredito era tal Abdelmabi, anch'esso libico ed in Italia da diciassette giorni. Questi il giorno dell'attentato si era recato presso l'abitazione della vittima intorno alle 11.00; insieme avevano visto la televisione e pranzato. L'Abdelmabi aveva più volte invitato il Barghalì a rientrare in Libia, ricevendone fermi dinieghi. Poco dopo le 14.00 allorchè stava per prendere congedo - così sintetizza la Corte d'Assise - il primo, giunto alla porta, s'era voltato di scatto, aveva estratto una pistola e dopo aver gridato "Gheddafi, Gheddafi!" aveva esploso tre colpi contro l'altro, ferendolo, con i primi due colpi alla testa e ai glutei, mancando il bersaglio, allorchè la vittima era già caduta a terra, al terzo. Abdelmabi dichiarava che dopo l'11 giugno secondo il tribunale del popolo libico tutti i libici residenti all'estero avevano l'obbligo di rimpatriare; che egli aveva il compito di fare opera di convinzione in questo senso e in caso contrario di giustiziare i suoi connazionali; così come aveva fatto con Barghalì offrendogli dapprima il biglietto aereo e poi, al suo rifiuto, esplodendo contro di lui colpi di pistola. Aggiungeva di non aver avuto intenzione di uccidere il suo connazionale bensì solo di ferirlo; che aveva ricevuto ordini direttamente dalla Libia e di non aver preso contatti con alcuno a Roma; che compiuta la missione nei confronti di Barghalì, sarebbe rimasto a Roma e non avrebbe avuto difficoltà a giustiziare altre persone, se così gli fosse stato ordinato. Di fronte ad una parziale ritrattazione sulla motivazione del viaggio, ferma la conclusione della Corte sulla motivazione del gesto: "Non si trattò di un fatto determinato da motivazioni di ordine privato bensì da un'azione compiuta nell'ambito di un quadro ben preciso avente connotati strettamente politici...". In tal senso l'esclamazione "Gheddafi, Gheddafi!" al momento di sparare; l'ostinato silenzio, come per consegna ricevuta, sulla provenienza dell'arma; il riferimento ad ordini ricevuti di portarsi in Italia e giustiziare i connazionali che non avessero aderito all'obbligo di rimpatriare; l'ammissione della sua appartenenza ad un'organizzazione rivoluzionaria dedita al terrorismo, che ha a vertice operativo i tribunali del popolo. In tal senso anche le conclusioni di PG, che riferivano, riesaminando quanto si è descritto nei paragrafi precedenti, del compimento in uno strettissimo periodo di tempo di una serie di analoghi attentati, a Roma e a Milano, tutti motivati identicamente, e cioè dalla pretesa di ricondurre in patria i recalcitranti. In tal senso le testimonianze della vittima e della sua compagna greca; il primo che riferisce che Abdelmabì aveva manifestato il proposito di uccidere altro connazionale di nome "Ouzdine", che proprio il giorno del presunto attentato, fu ucciso a Milano - e su cui al paragrafo prossimo -; la seconda che riferisce sulla condizione di terrore in cui all'epoca vivevano i libici di Roma per effetto dei proclami gheddafiani e dell'attività dei suoi sicari. In tal senso infine gli spostamenti in Europa ed in Nord-Africa dell'attentatore, certamente non giustificati nè da suoi impegni nè da sue disponibilità, essendo egli di mestiere un semplice autista. Costui condannato a diciannove anni, di lì a qualche tempo moriva per infarto nel carcere di Rebibbia.

A distanza di meno di quattro ore fu giustiziato, quell'11 giugno data di scadenza dell'ultimatum del colonnello libico, l'ultima delle vittime della campagna di terrore di quei mesi. E proprio quell'"Ouzdine" che era nei piani di Abdelmabì. "Ouzdine" il cui nome fu storpiato da verbalizzanti o da interpreti, era Lahderi Azzadine. Lahderi personaggio di primo piano per polizie e servizi occidentali e filoccidentali ed ovviamente di quelli avversari. Lahderi di certo operante, ed in operazioni di massimo rilievo, come si vedrà, per Italiani e Statunitensi.

Lahderi fu ucciso poco dopo le 18.00 di quell'11 giugno all'interno della stazione centrale di Milano nei locali del posto telefonico pubblico, con sei colpi di pistola esplosi a distanza ravvicinata, che lo raggiunsero al volto, all'emitorace destro ed alle spalle e gli cagionarono lesioni cardiache, polmonari, epato-spleniche e gastrointestinali, determinandone la morte quasi istantanea.

Lahderi era noto, così riferiva la PG una settimana dopo l'attentato, ai Servizi di sicurezza italiani per aver tenuto contatti con agenti dei Servizi libici ed in particolare con il "noto" Said Rashed, cui facevano riferimento più documenti - telex e telegrammi, indirizzi e numeri di telex - rinvenuti tra le carte dell'ucciso.

Il Lahderi nel 69 con la famiglia era espatriato dalla Libia e, avendo perso tutti i suoi averi a seguito della presa del potere da parte di Gheddafi e suoi accoliti, si era stabilito in Italia, a Bolzano. I suoi riferirono che da circa un mese prima del fatto erano pervenute più telefonate da parte di Abdallah El Senussi, dirigente del Governo libico, e di Said Rashid, capo dei Tribunali Rivoluzionari libici, che pretendevano il rientro del Lahderi e della sua famiglia in Libia. Anche una quindicina di giorni prima della sua uccisione egli si era recato a Bonn per parlare con Said Rashid, ma l'incontro non si era verificato perchè costui era stato respinto all'aeroporto tedesco dalle autorità di quel Paese. Il 9 giugno poi il Lahderi era partito da Bolzano per la Svizzera per incontrare nuovamente il Rashid - la vicina Confederazione gli aveva consentito di entrare - e trattare con lui un accordo. Il 10 giugno a sera aveva chiamato la moglie, riferendole che l'incontro c'era stato e tutto era andato bene. Il mattino dell'11 nuova telefonata, ma questa volta il tono era completamente cambiato; l'uomo, in stato di agitazione, affermava che sarebbe rientrato in Italia con il treno in partenza da Zurigo alla 13.00, raccomandando di dire, ove fosse stato cercato il figlio Murad, che costui era fuori città.

Quell'inchiesta accertò altresì sulla base di indagini compiute da Servizi di sicurezza di più Paesi europei, che avevano sotto controllo diversi cittadini libici appartenenti a gruppo facente capo a Said Rashid, le circostanze di seguito riportate.

Lahderi Azzedin aveva trascorso la notte dal 22 al 23 maggio 80 nella stanza 205 dell'hotel Bristol di Bonn, dove lo stesso giorno avevano preso alloggio i cittadini libici Fkent Musbah Kalifa e Kaled Tugiurt; il Lahderi aveva lasciato l'albergo lo stesso 23 maggio, con un giorno di anticipo sulla data prevista, e così pure se n'erano andati gli altri due libici, i quali, fermati il 24 maggio dalla polizia di Bonn e successivamente espulsi, avevano dichiarato che intendevano incontrarsi con il Rashed all'hotel Bristol; il 21 maggio 80 il cittadino libico Said Rashed, giunto all'aeroporto di Francoforte dichiarando, come destinazione, l'ambasciata libica Ufficio Popolare Libico di Bonn, era stato respinto dalla polizia tedesca che gli aveva vietato l'ingresso in quel Paese; Lahderi Azzedin era giunto all'hotel Schweizerhof di Zurigo il 9 giugno 80, e vi aveva soggiornato fino alle ore 11.30 del giorno 11 giugno; poco dopo il suo arrivo aveva telefonato due volte all'Ufficio Popolare Libico di Berna, e una volta all'Hotel Bellevue della stessa città, ove all'epoca alloggiavano cinque membri di quell'ambasciata, oltre ad altri cittadini libici; il 9 giugno 80 Rashed Said Mohamed Abdallah, giunto in Svizzera dalla Libia, aveva preso alloggio allo stesso Hotel Bellevue, ed era ripartito per il paese di origine l'11 giugno; lo stesso era già noto alle autorità elvetiche per i suoi precedenti soggiorni in Svizzera, e perchè in occasione dell'insediamento dell'Ufficio Popolare Libico nella capitale svizzera era stato lui a dirigere le operazioni e a dare ordine ai suoi connazionali; alle 12.10 del 10 giugno 80 Rashed Said aveva fatto visita a Lahderi Azzedin presso l'Hotel Schweizerhof di Zurigo, intrattenendosi con lui, e dopo circa due ore i due erano stati raggiunti da due sconosciuti, poi identificati nei cittadini libici Wershefani Ahmed Ali e Boueschi Muftah Abdallah; questi ultimi il pomeriggio dello stesso giorno, all'insaputa del Lahderi e del Said Rashed, erano stati fermati per controllo dalla polizia di Zurigo che li aveva trattenuti fino alle ore 12.00 del giorno successivo; il pomeriggio del 10 giugno Rashed Said si era trattenuto in albergo in compagnia del Lahderi, anche nella camera dello stesso, e nella serata era partito dall'aeroporto di Zurigo - Kloten per Ginevra - Cointrin, dove era giunto alle ore 22.45; lo stesso aveva prenotato il volo di ritorno per Zurigo, con partenza da Ginevra alle ore 7.30 del mattino del seguente 11 giugno; a Ginevra Rashed Said aveva trascorso la notte all'Hotel Intercontinental, da dove, tra la mezzanotte e le cinque, aveva telefonato al domicilio privato di Said Nourredine, diplomatico presso la missione permanente libica a Ginevra, ed aveva altresì ripetutamente telefonato all'Hotel Ramada della stessa città, dove alloggiavano i cittadini libici Khalifa Mohamed e Suleiman Abdulhamid, i quali si erano stabiliti in detto albergo il 4 giugno 80 dopo aver alloggiato all'Hotel Bellevue di Berna; in particolare Khalifa Mohamed aveva dimorato all'Hotel Bellevue di Berna dal 9 maggio al 4 giugno 80, occupando la camera n.442; il mattino dell'11 giugno il Khalifa Mohamed e il Suleiman Abdulhamid avevano improvvisamente lasciato l'Hotel Ramada di Ginevra alle ore 7.00, mentre alle ore 7.30 del mattino stesso Rashed Said era ritornato da Ginevra a Zurigo e qui si era portato nuovamente all'Hotel Schweizerhof per far visita al Lahderi, il quale alle 11.30, in compagnia di uno sconosciuto dall'aspetto arabo, aveva lasciato l'albergo per recarsi alla stazione di Zurigo, da dove era partito in treno per Milano.

A parte la responsabilità di colui che fu accusato di essere l'esecutore materiale del delitto e cioè Khalifa Mohamed Ben Asha, colui cioè che s'era presentato con il Lahderi al telefono pubblico di Milano Centrale - e che la Corte di Milano condannerà all'ergastolo - di rilievo appare la motivazione che quell'Asha adotterà nei confronti del coimputato Said Rashed stimato mandante ed organizzatore del delitto.

A fondamento della condanna di costui quel Collegio porrà in primo luogo una serie di circostanze notorie sui moventi dell'attentato. "E' notorio che nel periodo dell'uccisione del Lahderi era in corso una campagna delle autorità libiche nei confronti dei fuoriusciti da quel paese ai quali si ingiungeva di rimpatriare; tale campagna culminò in numerosi omicidi di esuli libici, consumati o tentati in varie città europee; lo stesso giorno 11 giugno 80, nel quale venne ucciso il Lahderi, il cittadino libico Abdelnabi Suaaiti a Roma tentò di uccidere a colpi di pistola, ferendolo gravemente, il connazionale Barghati Mohamed cui prima aveva inutilmente ingiunto di ritornare in Libia; il Barghati, interrogato dalla polizia in ospedale, dichiarò che in precedenza il Suaaiti gli aveva manifestato il proposito di uccidere altri cittadini libici fuoriusciti, fra cui Lahderi Azzedin (indicato in un primo tempo, per erronea trascrizione della pronuncia fonetica del nome, come Alhere Osdine);

- i ripetuti contatti del Lahderi con Wodalla Senussi, Capo dei Servizi segreti libici, e con Rashed Said, sono confermati dalle annotazioni degli indirizzi, anche riservati, degli stessi, e dai testi di telex, rinvenuti fra i documenti in possesso del Lahderi medesimo;

- l'importante funzione governativa svolta da Rashed Said quale capo di un gruppo di agenti libici operanti in Europa è confermata dalle informazioni di polizia in atti, fondate su notizie provenienti dai Servizi di sicurezza inglesi, tedeschi e soprattutto svizzeri: in particolare è risultato che costui aveva diretto le operazioni di insediamento dell'ambasciata libica di Berna, dando ordini ai suoi connazionali;

- che lo scopo del viaggio effettuato in Svizzera dal Lahderi dal 9 all'11 giugno 80 fosse stato quello di trattare con emissari del regime libico, e che la persona incaricata di tale trattativa fosse proprio Rashed Said, è confermato dal fatto che costui, come accertato dai Servizi di sicurezza elvetici, giunse dalla Libia in Svizzera lo stesso 9 giugno, si intrattenne ripetutamente con il Lahderi presso il suo albergo nei giorni 10 e 11 giugno, e ritornò in Libia il pomeriggio dell'11 giugno, poco dopo la partenza dello stesso Lahderi per l'Italia".

Dalle deposizioni dei familiari del Lahderi, e da detti elementi indiziari s'avvalora, nella ricostruzione della Corte "l'ipotesi che il movente dell'omicidio debba essere individuato nell'ostinato rifiuto opposto dalla vittima agli emissari del regime libico che gli intimavano di rimpatriare o comunque di mettersi al loro servizio: rifiuto mantenuto anche durante i colloqui che Rashed Said, prima con metodi suadenti e poi con ingiunzioni minacciose, aveva intrattenuto con lo stesso Lahderi a Zurigo il 10 e l'11 giugno 80.

Tale conclusione involge necessariamente anche la responsabilità di Rashed Said per concorso nell'omicidio, dato che la decisione di sopprimere il Lahderi conseguì al fallimento di quella trattativa, e dato che lo stesso Rashed, avendo condotto personalmente la trattativa medesima, era l'unico abilitato a prendere atto del suo fallimento. Inoltre egli, per la sua posizione gerarchicamente preminente sugli altri agenti libici operanti in Svizzera, era la persona maggiormente abilitata a prendere le decisioni conseguenti al fallimento della trattativa con il Lahderi".

Ma anche altre considerazioni, secondo quella Corte, "portano a riferire l'uccisione del Lahderi ad una attività decisionale e preparatoria di Rashed Said.

Il Lahderi venne ucciso alla stazione centrale di Milano mentre vi si trovava in transito durante il viaggio in treno che da Zurigo avrebbe dovuto portarlo a Bolzano, dove aveva preannunciato telefonicamente ai familiari il proprio arrivo. E venne ucciso da Kalifa Mohamed che in quel momento si trovava in sua compagnia e che era venuto anch'egli quel giorno dalla Svizzera. Quindi, o il Kalifa aveva viaggiato dalla Svizzera a Milano insieme al Lahderi - forse partendo con lui alle ore 13.00 da Zurigo dove si sarebbe portato dopo avere lasciato l'Hotel Ramada di Ginevra alle ore 7.00 - oppure era venuto per proprio conto da Ginevra a Milano per attenderlo all'arrivo del treno TEE da Zurigo. In entrambi i casi il sicario, pur non avendo intrattenuto alcun rapporto con il Lahderi durante i tre giorni di permanenza dello stesso in Svizzera, conosceva perfettamente il suo programma di viaggio. Tutto ciò non solo colloca evidentemente la preparazione dell'omicidio in territorio elvetico, ma stabilisce un diretto collegamento fra il delitto e la persona di Rashed Said, che aveva avuto ripetuti contatti con il Lahderi a Zurigo nei giorni 10 e 11 giugno, che aveva dovuto prendere atto del fallimento della trattativa da lui condotta con lo stesso, e che aveva sicuramente appreso la sua intenzione di partire da Zurigo per l'Italia il giorno 11 giugno con il treno delle ore 13.00.

Kalifa Mohamed apparteneva sicuramente ad una struttura segreta libica operante in Svizzera. Ciò è dimostrato dal fatto che la sua lunga permanenza in quel paese, non giustificata da ragioni turistiche o commerciali o di altra natura, aveva indotto i Servizi di sicurezza elvetici a sottoporlo ad assiduo controllo insieme ad altri suoi connazionali, nonchè dalla circostanza che egli aveva soggiornato a lungo all'Hotel Bellevue di Berna - dove si trovavano gli addetti all'ambasciata libica - e poi all'Hotel Ramada di Ginevra, spostandosi sempre insieme a Suleiman Abdulhamid, nella cui fotografia Lahderi Murad ha riconosciuto un appartenente ai Servizi segreti libici.

Ora, non è pensabile che un semplice agente come Kalifa Mohamed, senza ordini superiori e di propria esclusiva iniziativa, si fosse assunto la responsabilità di venire da Ginevra a Milano per sopprimere un personaggio dell'importanza del Lahderi. Ne può certo credersi - trattandosi di ipotesi priva di ogni plausibilità - che la risoluzione di uccidere il Lahderi fosse stata presa dal Kalifa Mohamed in modo improvviso ed estemporaneo, e quindi al di là di qualsiasi incarico, mentre egli si trovava con la vittima alla stazione centrale di Milano. Invero, le modalità alquanto maldestre con le quali Kalifa Mohamed eseguì il delitto abbandonando sul posto la valigia e la valigetta contenenti elementi utili alla sua identificazione, possono trovare agevole spiegazione nel fatto che egli - lasciato libero di scegliere il tempo e il luogo della soppressione del Lahderi, e forse perfino incaricato di attuare un estremo tentativo di indurlo a piegarsi alle richieste del regime - avesse dovuto uccidere la vittima in quel modo e in quel momento a causa di qualche difficoltà sopravvenuta o forse in seguito a qualche tentativo del Lahderi di sottrarsi al suo controllo o di chiedere aiuto.

Il fatto quindi che Kalifa Mohamed avesse agito in adempimento di un incarico affidatogli conforta ulteriormente la tesi che il mandante dell'omicidio fosse stato Rashed Said, al quale il Kalifa era gerarchicamente sottoposto.

L'insieme delle argomentazioni logiche fin qui svolte consente dunque di affermare con certezza che Rashed Said - giunto appositamente dalla Libia a Zurigo per incontrarsi con il Lahderi e per indurlo, anche con minacce, a sottomettersi alla volontà del regime, e avendo constatato, al termine dei lunghi colloqui del 10 giugno, il rifiuto irremovibile dell'interlocutore - aveva deciso che lo stesso Lahderi doveva essere ucciso come molti altri esuli libici che venivano soppressi in Europa in quei giorni, ed aveva incaricato dell'esecuzione dell'omicidio il Kalifa Mohamed, che in quel periodo risiedeva all'Hotel Ramada di Ginevra, fornendogli altresì tutte le opportune informazioni sul viaggio di ritorno della vittima in Italia.

Tale logica conclusione ha trovato una chiara ed eloquente conferma nelle osservazioni apprese, tramite l'Interpol, dei Servizi di sicurezza elvetici. E' infatti emerso come si è accennato, che Rashed Said, dopo avere trascorso molte ore del pomeriggio del 10 giugno in compagnia del Lahderi presso il suo albergo di Zurigo, la sera stessa era ripartito in aereo per Ginevra giungendovi alle ore 22.45, e alle ore 7.30 del mattino seguente era ripartito per Zurigo, dove aveva nuovamente fatto visita al Lahderi. Il breve soggiorno notturno del Rashed Said a Ginevra - come sopra già s'è detto; nde - era stato da lui trascorso all'Hotel Intercontinental di quella città, da dove aveva telefonato all'abitazione privata del diplomatico libico Said Nourredine e, ripetutamente, all'Hotel Ramada dove alloggiavano Kalifa Mohamed e Suleiman Abdulhamid. Costoro alle ore 7.00 del mattino successivo avevano improvvisamente lasciato l'albergo.

Quale fosse stato lo scopo di questo improvviso viaggio notturno di Said Rashed da Zurigo a Ginevra si può facilmente comprendere ponendo in relazione fra loro, alla luce dell'intera vicenda, gli altri fatti concomitanti o di poco anteriori o successivi, e precisamente: il fallimento della trattativa con il Lahderi, le telefonate notturne all'Hotel Ramada dove alloggiavano Suleiman Abdulhamid e Kalifa Mohamed, la precipitosa partenza di costoro dall'albergo il mattino successivo, ed il viaggio in Italia effettuato nelle ore seguenti dal Lahderi e dal Kalifa Mohamed fino alla stazione centrale di Milano, dove i due giunsero insieme e dove il primo venne ucciso dal secondo.

Il modo precipitoso e, a quanto sembra, improvvisato, con il quale il Said Rashed si procurò il sicario incaricato della soppressione del Lahderi, va probabilmente messo in relazione con il temporaneo fermo da parte delle autorità elvetiche a Zurigo nella giornata del 10 giugno dei cittadini libici Wershefani Ahmed e Boueschi Muftah Abdalla, i quali erano stati con lo stesso Said Rashed e il Lahderi, e presumibilmente erano le persone che, secondo il piano originario, all'occorrenza avrebbero dovuto essere impiegati per eseguire l'omicidio". (v. sentenza della Corte d'Assise di Milano del 27.11.86).

Tanto s'è riportato di quella decisione non solo per completezza di ricostruzione del fatto e di tutte le funzioni di coloro che vi concorsero, ma anche per delineare con precisione la figura di Said Rashed al fine di meglio comprendere il peso della sua organizzazione e i comportamenti che le nostre Autorità terranno in quel torno di tempo nell'ambito dei procedimenti scaturiti dalla campagna di esecuzioni contro i dissidenti antigheddafiani.

Ma prima di affrontare la posizione del giustiziere appare opportuno, al fine di valutare a pieno quella campagna e la reazione ad essa delle nostre Autorità, concludere il discorso sulla vittima. Costui già appariva nella lista dei cittadini libici consegnata da Mousa Salem, di cui alla nota del Raggruppamento Centri CS del 13.08.79, dei quali veniva chiesta dal rappresentante libico l'espulsione verso la Libia. Inoltre è inserito nella lista dei nomi consegnata il 2 aprile 80 al Rappresentante del Servizio informativo libico, Mousa Salem: "a. Abdeljalil Zaki Aref - abita a Roma in via Veneto n. 108, commerciante; b. Abdel Latif Leguel - abita a Roma in via Sicilia n.20, con recapito anche in via Sardegna n. 32, commerciante; c. Abdalla Omar Giauda - abita a Roma, viale Tito Livio n. 130, presso l'albergo "Villa Ginestre"; d. Mohamed Bashir El Huni - abitava a Roma, viale Carnaro n.32, già giornalista-editore, è di recente deceduto per collasso cardiaco; e. El Senussi El Idrisi - abita a Roma, via Val d'Ala n.26, tel. 8128969, commerciante; f. Said Belrewin - abita a Roma presso la pensione "Paisiello" sita nella via omonima n.47. Non nota l'attività svolta; g. Azzedin El Hedeiri - abita a Bolzano, piazza Verdi n.28, affarista; h. Rajab Ben Katu - abita a Roma, via Morliano n.12, noto col nome di Rageb Ben Katu, affarista; i. Amru Essahly - potrebbe identificarsi in Omar Sassi Sahli, nato a Giado il 16.05.35, proprietario di un appartamento sito in questa via Marziale, 47 scala A int.15, con recapito provvisorio in via Val Sillaro n.42; l. Mohamed Ibrahim Elzlitini - abita a Roma, viale Tito Livio n.130, presso l'albergo "Villa Ginestre"". Questa ulteriore trasmissione d'elenco scaturiva dalle richieste che Mousa Salem, ora pietendo ora minacciando, aveva formulato prospettando i "mali" in cui sarebbe incorso il nostro Paese, ove non fossero state accolte. E' bene riportare per intero la nota del S.I.S.MI concernente tale richieste: "1. Il soggetto, nel corso di un incontro con elemento di questo Organismo, sollecitato allo scopo di avere un colloquio con il Direttore del S.I.S.MI al più presto possibile, è apparso notevolmente avvilito, depresso e sfiduciato.

Era chiaro che doveva aver ricevuto da poco qualche dura "reprimenda" da Tripoli e che si trovava ancora in stato di smarrimento.

2. Durante la conversazione, comunque, è venuto alla luce, in maniera chiara e netta, che i problemi che lo assillano e lo preoccupano, per le reazioni che provocano a Tripoli, sono sostanzialmente riducibili a due: a) continui attacchi alla stampa italiana a Gheddafi e al suo regime.

E' un fatto questo che manda Gheddafi su tutte le furie. E' per lui inconcepibile come, uno Stato che si professa amico, possa lasciare piena libertà alla stampa di attaccarlo ripetutamente, senza ritenere di dover intervenire per porre fine a questi attacchi;

b) dissidenti libici (vecchi e nuovi) che hanno trovato ospitalità in Italia e che da qui muovono continue critiche al regime di Tripoli. A tale proposito, Mousa Salem, ha rappresentato di trovarsi in una situazione di estremo disagio, nei confronti della sua Centrale, non essendo mai riuscito ad ottenere il benchè minimo aiuto dal Servizio Italiano, anche se in proposito sono sempre state fatte molte promesse. Per ultimo, la scoperta dell'uccisione del cittadino libico Salem Mohamed Rteimi, lo ha colto di sorpresa e completamente scoperto, non essendo al corrente della sua permanenza a Roma e della sua attività.

Mousa Salem, ha fatto presente che avrebbe bisogno: - dell'elenco di tutti i libici che soggiornano in Italia regolarmente, con gli aggiornamenti che si verificano nel tempo; - dell'elenco delle ditte in cui entrano come soci cittadini libici.

Detti elenchi, secondo Mousa Salem, gli sarebbero necessari per poter svolgere un adeguato controllo sui libici in Italia, invitandoli in via bonaria e amichevole, a non compromettersi, con dichiarazioni, discorsi o altro nella campagna di denigrazione che viene condotta contro Gheddafi.

3. Mousa Salem, in definitiva, ha voluto far presente che si trova nella necessità, indilazionabile, di dimostrare, ai suoi superiori, di avere, in Italia, la situazione sotto controllo con la collaborazione del Servizio Italiano.

Qualora Mousa Salem non fosse messo in tali condizioni, è chiaro che verrà sostituito con altro elemento, sicuramente meno moderato di lui e più legato alla corrente estremista del regime di Gheddafi.

Mousa Salem, ha riferito inoltre, che se l'Italia non cercherà di risolvere nella maniera ritenuta più opportuna i due grossi problemi di cui al punto 2 (attacchi della stampa italiana a Gheddafi e dissidenza libica in Italia), che per la mentalità occidentale possono essere ritenuti del tutto trascurabili, ma che per Gheddafi assumono un valore di eccezionale portata di cui sicuramente l'Italia non si rende conto, è da prevedere: - un taglio alle forniture di petrolio; - lo smistamento di tutti i libici che hanno bisogno di cure mediche e dei loro accompagnatori verso altri Paesi; - la iscrizione degli studenti libici in università diverse da quelle italiane; - l'addestramento di militari libici presso le FF.AA di altri Stati; - un inasprimento generale di tutti i rapporti fra i due Paesi.

4. Mousa Salem partirà per Tripoli sabato 29 c.m. essendo stato convocato per comunicazioni urgenti dalla sua Centrale".

Nella lista dei nomi, come ben si vede, c'è anche il nostro. E del nostro il S.I.S.MI assicura che "già da tempo è stato messo sull'avviso del pericolo che corre" (v. nota 3068/4 del Raggruppamento Centri CS datata 11.05.80 in provvedimento di esecuzione del 30.03.96).

Ma il nostro non era uno sconosciuto nè, se anche conosciuto come un semplice cittadino libico, ospite od esule sul nostro territorio, dedito ad ordinari lavori od affari. Lahderi aveva dato luogo, nel maggio, ad un intervento del S.I.S.MI nei confronti del S.I.S.DE e di Forze di Polizia - Carabinieri, Finanza ed Ucigos -, giacchè era emerso proprio in quel periodo un interessamento di questi enti nei suoi confronti. La nota è del Raggruppamento Centri Controspionaggio, reca la data del 21 maggio, ed è firmata dal noto colonnello Cogliandro, capo all'epoca di quel Raggruppamento. L'interesse era nato giacchè in carte rinvenute ad un dissidente ucciso a Londra, sempre nel corso della più volte menzionata campagna, era emerso recapito in Bolzano di detto Lahderi.

Costui, si afferma, è una fonte, tuttora valida, del Servizio. Ha segnalato elementi conoscitivi tali da consentire al Servizio: a. di essere il primo Servizio che ha denunciato la presenza dei Servizi Speciali libici con particolari incarichi, tra cui quello di eliminare fisicamente i più qualificati dissidenti libici all'estero; b. di localizzare, identificare e fotografare a Roma parecchi esponenti di detti Servizi Speciali, nei confronti dei quali si è di conseguenza proceduto con l'espulsione di uno di essi e con l'iscrizione in rubrica di frontiera dei restanti; c. di segnalare la presenza di elementi di quei Servizi Speciali a Istanbul, Parigi, Londra, Bonn e in Svizzera; d. di aver portato a fallimento un progetto di contatto a Roma tra quei Servizi e le Brigate Rosse; e di acquisire elementi conoscitivi sull'interesse degli Stati Uniti alle vicende interne di Libia e sulla volontà di stabilire un contatto, tramite esso Lahderi, con il comandante dell'Armata del Sud, il noto Massoud Abdulhafid.

Di conseguenza quel Raggruppamento chiedeva, al fine di salvaguardare il rapporto e il prosieguo dell'azione, di bloccare qualsiasi interferenza estranea al S.I.S.MI su Lahderi, che come ben si nota è un personaggio di prima grandezza per il nostro Servizio militare, e, più in generale, per la sicurezza interna ed esterna.

In un documento di poco precedente, un appunto per il Direttore del Servizio datato 21 aprile di quello stesso anno, il Lahderi viene infatti identificato nella fonte "Damiano", manovrato dal Raggruppamento Centri CS, "originatrice di tutte le notizie sin qui acquisite ed utilizzate in ordine ai Servizi Speciali libici".

E su questo "Damiano", personaggio , lo si ripete, di tale livello, viene rinvenuto ed acquisito presso il S.I.S.MI un notevole fascicolo, dal titolo "Fonti Damiano" RCSS (Brigate Rosse). Fascicolo che nasce nel febbraio 75, contiene numerosi atti, ma ha termine stranamente il 27 maggio 78, cioè oltre due anni prima dell'assassinio del "Damiano" e a brevissima distanza di tempo dalla tragica conclusione del sequestro Moro. Dal momento che l'uomo ha di certo continuato la collaborazione sino alla sua morte, e che tale collaborazione non ha potuto non produrre appunti ed altri scritti, il Servizio sicuramente conserva sotto altra fascicolazione gli atti relativi a questo biennio, senza dubbio ancor più interessanti di quelli del fascicolo acquisito, già di per sè di altissimo rilievo.

Non è possibile elencare tutti i risultati dell'azione di "Damiano", che altrimenti si occuperebbero capitoli di questa parte del provvedimento. E' sufficiente elencare solo alcune delle operazioni per misurare il valore della fonte. Il primo documento è un appunto su una riunione segreta tenutasi a Beirut il 15 febbraio 75 fra capi della guerriglia palestinese e cittadini italiani "presuntamente appartenenti alle Brigate Rosse"; le notizie riferite sono precise e dettagliate e dimostrano l'efficacia della fonte, La riunione, così viene riferito, ebbe luogo nella notte tra il 15 e il 16 febbraio di quel 75 - le BR sono ai primordi, ma già hanno sì rilevanti rapporti - tra le 22.00 e le 04.00 successive in un elegante appartamento al quinto piano di edificio ubicato in quartiere della capitale libanese controllato dai guerriglieri palestinesi. Alla riunione furono presenti, dal lato palestinese, Abu Ayad ovvero Salah Khalaf, George Habbash, giunto per l'occasione da Baghdad, ed altri arabi, e, dal lato italiano, quattro elementi delle Brigate Rosse tra cui una donna. L'oggetto principale dell'incontro fu la possibilità concreta da parte della guerriglia palestinese di dar collaborazione alla causa rivoluzionaria delle Brigate Rosse. Da parte italiana furono enunciati progetti di contemporanei dirottamenti di più aeromobili Alitalia nonchè di attentati terroristici, sempre in contemporanea, su obiettivi israeliani come banche, consolati od ambasciate, con richieste di liberazione per i brigatisti detenuti. Non furono formulate richieste di aiuto, essendo i nostri già - nel 75! - perfettamente organizzati sul piano operativo. Unica necessità il reperimento di Paesi disposti a concedere asilo a brigatisti e scalo ai velivoli dirottati. Gli italiani sarebbero stati accreditati da parlamentari del PCI, che li avrebbero raccomandati come degni di essere aiutati. Erano giunti a Beirut provenienti da più parti d'Europa e rientrarono in Italia separatamente. I capi arabi si riservarono e fissarono altra riunione a brevissima distanza di tempo sempre a Beirut. Seguivano nell'appunto le descrizioni dei quattro, tra cui la più dettagliata quella della donna: alta, bionda, dagli occhi celesti, di carnagione chiara, molto bella, elegante, apparentemente di 20-25 anni. Un annotatore del Servizio a margine scrisse "può essere la donna di Curcio?". Seguono appunti di pari se non superiore livello, tra l'altro sulla evasione di Curcio, sui Paesi Europei che potrebbero essere di base alle BR, sulla possibilità nella Repubblica Popolare dello Yemen - chi non ricorda il progettato viaggio, durante la fase terminale del sequestro Moro, del figlio del parlamentare nello Yemen? - su attentati BR e IRA a Ginevra e Londra. E poi su progetto dello stesso "Damiano" proposto al Servizio, di ritornare egli stesso a Beirut accompagnato da elemento preminente del Servizio, spacciato come segretario, e partecipare a nuova riunione con BR, al fine di identificare i brigatisti a convegno con i leaders palestinesi. "Damiano", questo è il giudizio che se ne dà sin dai primi appunti, è "sincero e leale, per quanto possa esserlo un arabo, e non è spinto da alcun particolare motivo se non quello di evitare spargimento di sangue innocente, in particolare in Italia, cui è profondamente attaccato e che considera la sua seconda patria. Il soggetto non ha chiesto nulla e già ha anticipato che non chiederà nulla neanche in futuro".

E poi appunti, oltre che sui rapporti OLP-BR, sui rapporti tra Abu Ayad e Libia e Marocco, sulla situazione nella Resistenza Palestinese, sul progetto di attentato con missili a Fiumicino del settembre 73, sulla penetrazione dei palestinesi nel mondo arabo. Sulla seconda riunione di Beirut tenutasi il 20 marzo, sempre di quel 75, in cui "Damiano" funge da interprete, egli svolge attività di agente offensivo, con opera di disinformazione sulle Brigate Rosse, e mostra "nobile spirito di attaccamento all'Italia da lui considerata la seconda patria". Su iniziative del Re Hassan del Marocco, su piani terroristici contro il Presidente Sadat dell'Egitto, su tentativi, falliti, di colpo di Stato in Libia, su accordi tra Israele ed Egitto, su crisi in Libano, sui conflitti interni al regime siriano.

E inoltre su colloqui con il noto rappresentante del OLP in Italia Nemer Hammad - che critica violentemente un articolo dell'Unità dal titolo "L'ONU, Israele e il Sionismo", che mostra compiacenze del PCI nei confronti del sionismo e interesse a non urtare la suscettibilità della colonia ebraica di Roma; che si propone di protestare presso la Direzione del PCI, forte dell'appoggio dell'Ambasciata dell'Unione Sovietica nella capitale italiana; che mostra soddisfazione per la visita di un inviato di S.S.Paolo VI in Libano alla Croce Rossa Palestinese -; su Mehishi Omar Abdallah - autore di fallito golpe in Libia, rifiutato da Governi occidentali ed arabi, ammesso solo alla Mecca, ma come comune pellegrino -; su Jalloud Abdusalem - Primo Ministro libico a rischio di defenestrazione per scandali causati da suo fratello e di sostituzione con il Ministro dell'Interno Hamed Kulsadi, cui sarebbe successo il Capo della polizia militare Mustafà Khannubi -; su El Huni - ex Ministro degli Affari Esteri libico - a rischio di attentato da parte di elementi di George Habbash, buon amico di Gheddafi -; su 14 piloti palestinesi giunti a Tripoli da Mosca, dopo essere stati addestrati in URSS; su un piano di attentato al Re Khaled Bin Abdel Aziz Saud dell'Arabia Saudita - tra gli organizzatori uno sarebbe stato pronto a riferire ai Servizi segreti i termini del progetto-; sull'entità dei fondi stanziati dal Governo libico, cioè un milione e duecentomila dollari- per una serie di attentati contro gli Stati Uniti, che sarebbero stati attuati da palestinesi, cubani e portoricani; su Abu Daud - presunto responsabile della strage durante le olimpiadi di Monaco di Baviera, strage di cui sarebbe stato a conoscenza oltre che Gheddafi anche il Ministro degli Esteri all'epoca e capo dei Servizi di Informazione El Huni -; su Abu Nidal e gli eredi di Wadi Haddad - le cui formazioni erano organizzate dal Servizio di Sicurezza iracheno -; su George Habbash - che recatosi in visita a Cuba e a colloqui con Fidel Castro, da costui, che esprimeva vivo apprezzamento per gli ideali BR, avrebbe ricevuto invito per tutti i palestinesi a fraternizzare con i brigatisti rossi nel nome dei comuni ideali antimperialisti.

Il valore di Lahderi era stato scoperto pure dagli Americani, che lo avevano arruolato anch'essi addirittura come agente della Stazione CIA in Roma. In tal senso il Capo della stazione stessa, il noto Clarridge, che in un primo esame, quello compiuto in commissione rogatoria a S.Diego nel maggio 94, alla domanda se avesse seguito - egli era Capo Stazione CIA a Roma nell'80 - gli assassinii compiuti nel nostro Paese a danni degli oppositori al regime gheddafiano, aveva risposto che in quella campagna egli aveva perduto due agenti. Su tali delitti egli era poi più preciso nell'esame compiuto nella successiva rogatoria nel maggio 96 a Washington allorchè, essendo di certo ritornato con la memoria sugli episodi, affermava che uno dei suoi agenti uccisi era stato freddato all'interno di una cabina telefonica alla stazione di Milano, che costui era persona di livello abbastanza alto quanto alla qualità delle notizie fornite, che si "sospettava" che lavorasse anche per l'intelligence italiana. E sul punto Clarridge riferisce in modo chiarissimo, anche se con linguaggio molto diplomatico, quale fosse lo stato dei rapporti tra CIA e S.I.S.MI sulla questione libica. "La nostra cooperazione con il S.I.S.MI sull'obiettivo libico - on the Libyan target - non era molto stretta...Il Servizio si teneva molto stretto - kept all of its Libyan matters very closed - tutte le informazioni sugli affari libici ... . C'erano sempre problemi ma essi manifestavano con chiarezza - they made it very clear - che non volevano rapporti molto stretti sugli affari libici (vedi esame Clarridge Duane, GI 20.05.94).

Più chiari di così probabilmente è impossibile. Lo stato dei rapporti tra gli Stati Uniti e l'Italia, in particolare dei rispettivi Servizi, a riguardo della Libia, è disegnato con tratti inequivoci ed inequivocabili.

Questo per il versante statunitense. Per quello libico valgono le parole di Yunis Belgassem, Capo al tempo dei Servizi di quel Paese, come riportato in un'intervista alla Repubblica del 16 ottobre 85. "I rapporti tra i Servizi Segreti Libici ed Italiani sono ovviamente di lunga data. Io ne ho personalmente assunto la gestione a partire dal 79. Questi rapporti mirano al coordinamento nelle questioni di sicurezza di reciproco interesse".

Alla domanda "Risulta che questi rapporti siano particolarmente intensi, direi privilegiati. Nel 70 il SID di Miceli a Trieste bloccò una nave carica di armi ed oppositori in partenza per Tripoli; nell'80 il S.I.S.MI di Santovito svelò i preparativi di una rivolta nella caserma di Derna; inoltre le prime consistenti forniture di armi italiane alla Libia avvennero tramite il SID. Lei è grato ai Servizi Segreti Italiani e questa collaborazione prosegue a tutt'oggi?", così il nostro: "Preferisco non addentrarmi nei particolari. Effettivamente c'è un'intensa collaborazione tra i Servizi Segreti dei due Paesi, c'è uno scambio d'informazioni sui cittadini libici ed italiani che creano problemi nei due Paesi, c'è un clima di reciproca fiducia. Questi rapporti si giustificano con la volontà dei due Paesi di promuovere delle relazioni di amicizia e cooperazione".

Lo stesso giorno degli attentati al detto Lahderi e a Barghali, l'11 giugno ovvero il termine dell'ultimatum di Gheddafi, si verifica altro evento meritevole di attenzione. Come noto in conseguenza dell'attentato del 21 maggio 80 ai danni di Fezzan Mohamed Salem erano stati arrestati Salem Said Salem e Abubaker Alì. Per il primo il Giudice Istruttore aveva disposto il 10 giugno, in considerazione delle sue condizioni di salute - Salem sarebbe stato affetto da diabete mellito di intensità estremamente variabile nell'arco del giorno, donde necessità di ripetuti esami glicemici nello stesso periodo temporale e di somministrazione di diete adeguate - ricovero di esso Salem in ambiente ospedaliero e precisamente o presso la Mater Dei di via Bertoloni o la Villa Margherita di via di Villa Massimi, entrambe cliniche di lusso.

Ma l'11, sempre il giorno dell'ultimatum e di certo di buon mattino, si mette in moto anche una rapidissima iniziativa tesa alla scarcerazione per mancanza di indizi in suo favore. Entro gli orari d'ufficio - nulla emerge dalle carte in senso contrario - viene presentata dalla difesa istanza di scarcerazione presso la cancelleria di questo Ufficio, tale istanza viene trasmessa all'Ufficio del PM; questi verga parere favorevole per sopravvenuta mancanza di indizi; il GI pronuncia provvedimento di accoglimento e conseguentemente ordina la scarcerazione del Salem.

Questi, che non è persona da poco, giacchè come si vedrà si qualifica Consigliere del Ministero degli Affari Esteri del suo Paese, il 15 giugno telefona come suggerito - ma nonostante ogni sforzo non si è capito da chi - a Jalloud che all'epoca era ancora il secondo della gerarchia gheddafiana, e il segretario di costui lo rassicura che "le cose che lo interessano vanno bene". E telefona anche al suo console.

Ma non fa solo telefonate. Scrive anche all'Eccellenza Santovito. E' una lettera di ringraziamento, redatta in arabo con ogni probabilità, come si comprende dal suo contenuto, il giorno stesso della scarcerazione. Contenuto a tal punto illuminante sulla situazione di quei giorni, sui rapporti tra i due Paesi e sugli interventi in favore del detenuto, che merita di essere riportata per esteso: "15 giugno 80 - A sua Eccellenza Giuseppe Santovito - Mentre lascio il vostro ospitale Paese, dopo tutto quello che è accaduto per colpa di alcuni che hanno voluto mettere in crisi gli intimi rapporti che da lunga data intercorrono tra i nostri due Paesi, devo ringraziare i fratelli che mi hanno assistito e protetto dalle 8 di mattina. Ringrazio ancora per le vostre buone azioni e vi prometto che sarò fedele per lo sviluppo degli stessi rapporti tra il popolo libico e quello italiano. Ancora vi prometto che farò del mio meglio con i fratelli in Libia e, per primo, con il Maggiore Abdel Salam Jalloud, per riportare la situazione alla normalità e per risolvere tutti i problemi che vi interessano". Segue la firma di Salem Said e la qualifica di "Consigliere al Ministero Affari Esteri". Questa la traduzione della missiva trasmessa dalla Presidenza del Consiglio.

La missiva da una traduzione informale operata dalla DCPP risulta datata 15 giugno 80 e la frase "devo ringraziare i fratelli che mi hanno assistito e protetto dalle 8 di mattina" è stata tradotta in "Ringrazio i "fratelli" che mi hanno sostenuto fin dal momento della mia scarcerazione". Come ben si vede nessun riferimento ad alcun orario. Non è di facile comprensione il motivo di tale difforme traduzione del testo.

Appunto e nota di ringraziamento sono stati rinvenuti in allegato ad una lettera dello stesso Santovito al Presidente del Consiglio, presso la Segreteria Speciale della stessa Presidenza (v. missiva nr.12898/1/04 del 9.06.80 trasmessa dalla Presidenza del Consiglio con lettera datata 01.04.96). Questa nota che riassume l'intera situazione libica in Italia - questo è il suo oggetto - e si conclude con richieste di sommo interesse per la ricostruzione di quei giorni, merita esame approfondito, che s'intraprenderà subito dopo la conclusione delle vicende di Salem.

Questi una volta scarcerato, è accompagnato da elementi del S.I.S.MI del Raggruppamento Centro di Controspionaggio presso la clinica villa Mafalda, come ben si legge nel messaggio n.3791/4 del Raggruppamento Centri CS datato 12.06.80, acquisito presso detto Servizio Militare. Il ricovero presso quella clinica non risulta però registrato, come prova la documentazione sequestrata presso l'amministrazione della stessa. (provvedimento di sequestro presso la Clinica "Villa Mafalda" del 31.10.95). Il Presidente della stessa, Era Renato, personaggio vicino al Servizio Militare, in contatto con numerose personalità istituzionali, in particolare militari - su tali contatti si dovrà tornare più oltre - ed in stretti rapporti con il colonello Cogliandro, capo di quel Raggruppamento Centri, come risulta da numerose carte sequestrategli e come da lui stesso ammesso (esame Era Renato, PM di Bologna, 06.03.85), ha riferito di ricordare di aver ricoverato un libico su richiesta del detto colonnello e che la mancata registrazione con probabilità gli era stata richiesta dallo stesso Ufficiale. In particolare così Era rispondeva alle domande su ricoveri di libici presso la sua clinica. "Nego di aver mai ospitato presso la casa di cura personalità della gerarchia libica, come Gheddafi o Jalloud. Ho sempre registrato le persone che si sono ricoverate presso villa Mafalda, libici come italiani o di altri Paesi". A contestazione dei fatti sopra specificati, afferma:"Non ricordo questo episodio. Ricordo che qualche giorno dopo vennero funzionari della Questura che mi chiesero di un libico, un personaggio che era stato nella clinica ma che al momento della richiesta della Polizia non vi era più ricoverato. Riflettendoci ora la persona ricercata dalla Polizia potrebbe essere proprio la persona che non fu registrata. La mancata registrazione evidentemente era avvenuta su segnalazione di Cogliandro... . Escludo che Cogliandro mi abbia detto che si trattava di un diplomatico o del Segretario del Consiglio dei Ministri... . Nè so dire la ragione sanitaria di tale ricovero. Se le cose stanno così come mi sembra di capire, si tratta di un falso ricovero"(v. esame Era Renato, GI 15.05.96).

Ogni commento appare superfluo. Il legame tra il nostro Servizio e i Libici appare così stretto da giustificare il giudizio di Clarridge.

9. La testimonianza di Giancarlo Elia Valori.

Dall'agenda sequestrata dopo la morte di Lahderi emerge che lo stesso era stato in contatto con il prof.Giancarlo Elia Valori, di cui era in possesso dei numeri telefonici dell'ufficio presso l'Italstrade, e dell'abitazione.

Valori, massone, già iscritto alla Loggia P2 di Licio Gelli che nel 72 lo espelle, è un personaggio di primo piano nel nostro Paese. Giovanissimo entra nella Democrazia Cristiana e si lega alla corrente di Amintore Fanfani, diventando il braccio destro di Ettore Bernabei, che segue prima alla RAI e poi alla Società Italstrade. Nei primi anni 70 si fece promotore del ritorno in Argentina del Presidente Juan Peron dall'esilio in Spagna e ne divenne amico, così come ebbe rapporti con personalità di diversi altri Paesi, quali il dittatore della Corea del Nord Kim Il Sung.

Sentito a testimone, ha confermato la conoscenza con il Lahderi - gli venne presentato dal generale Santovito, al tempo in cui questi era capo del S.I.S.MI - come "persona in grado di introdurre la Società nel mondo delle commesse libiche" e con il quale ebbe uno o due incontri per questioni attinenti alla società. Chiestogli se nell'ambito delle proprie attività avesse avuto rapporti con l'ambasciata libica a Roma, Valori ha risposto di aver conosciuto un libico dell'ambasciata di nome Mousa Salem che si sarebbe occupato di attività economiche. Ma, come s'è visto, Mousa Salem è ben conosciuto ed ha poco a che fare con gli affari economici della Libia, in quanto si occupa della sicurezza del proprio Paese e in quegli anni, ricopriva l'incarico di Rappresentante del Servizio informazioni libico in Italia, e per tali motivi era in rapporti con il S.I.S.MI. Preso atto che dall'agenda rinvenuta a seguito dell'omicidio di Lahderi oltre al numero telefonico dell'ufficio risultava anche quello dell'abitazione, Valori - probabilmente per sminuire la reale entità dei rapporti con il libico - ha escluso di averglielo mai dato, adducendo anche che l'utenza telefonica della propria abitazione appariva, in quegli anni, in elenco.

Per meglio comprendere il ruolo e la valenza di Valori è opportuno rilevare, tra le varie attività svolte dal soggetto, quella concernente un'operazione di diplomazia parallela, di cui ha fatto cenno nel corso dell'esame testimoniale: "Nel 1988 mi attivai per la liberazione di tre ostaggi ebrei francesi catturati dagli iraniani in Iran. La richiesta mi pervenne da amici francesi di ambiente governativo che mi dissero trattarsi di un "caso umano". Mi rivolsi al Presidente della Corea del Nord, Kim Il Sung, da me conosciuto dal 75 allorchè per la RAI mi recai in Estremo Oriente per allacciare contatti utili all'apertura di uffici. Conservo la lettera ufficiale ove l'interprete, ex Ambasciatore Nord Coreano a Roma, narra la vicenda di questo caso umano risoltosi positivamente, all'esito di colloquio tra Kim Il Sung e Khameney, attuale Imam. Gli ostaggi furono portati perciò a Vienna e indi a Parigi, con velivolo della Croce Rossa internazionale. Avevo informato in via riservatissima solo il Presidente della Repubblica. Fui all'esito insignito della Legion d'Onore Presidenziale da Mitterrand, consegnatami a Palazzo Farnese (v. esame Valori Giancarlo Elia, GI 21.06.96).

10. La testimonianza del tenente colonnello Aldo Sasso,
già Capo del Centro IV del Raggruppamento CS di Roma.

Sia su Lahderi, fonte del Servizio, che su Valori interviene la testimonianza del colonnello Sasso, responsabile in quegli anni del Centro IV del raggruppamento Centri CS di Roma. Questi conferma che il libico era una fonte del S.I.S.MI inserita nell'ambiente del Servizio libico. Sasso dopo aver precisato che la Libia aveva due Servizi: uno ufficiale gestito da Belgassem ed altro specializzato in attività terroristiche, nei quali era inserito il Lahderi, teneva a precisare che costui era un'ottima fonte in quanto forniva i nomi degli elementi libici pericolosi da mettere sotto controllo in Europa e in Italia. Lahderi non accettava retribuzioni in quanto era un idealista. Ha ricordato che Ladheri venne ucciso a Milano al rientro da una missione relativa a contatti con elementi del S.I.S.MI libico, "probabilmente - a causa di una sua condotta troppo spregiudicata - finì per insospettire i predetti libici che decisero di eliminarlo" (v. esame Sasso Aldo, GI 07.02.97).

Relativamente a Valori ha dichiarato di averlo avvicinato in occasione dell'arrivo in Italia del Presidente dell'Argentina, Frondizi, nei primi anni 70 al fine di acquisire notizie sulla presenza nel nostro Paese del Premier argentino. A seguito dell'incontro iniziò una frequentazione tra i due finalizzata alla ricezione di notizie di interesse per il Servizio. L'ufficiale ha ricordato che Valori era molto irritato con Licio Gelli e per tale motivo aveva tantato di metterlo in cattiva luce. Ha escluso di aver conosciuto Lahderi attraverso Valori, affermando, invece di averlo conosciuto attraverso Omar Yehia.

Omar Yehia è personaggio di certo rilievo, esule dalla Libia, dal quale Paese era riuscito a fuggire grazie all'aiuto di ufficiali americani - forse della CIA. Sasso colloca la conoscenza con Yehia nel 70. E' bene riportare integralmente le dichiarazioni dell'ufficiale: "Yehia era un esule libico conosciuto tramite ufficiali del Servizio di sicurezza USA, già in servizio a Tripoli prima della cacciata degli americani da quel paese, disposta da Gheddafi. Questi ufficiali - forse della CIA - lo aiutarono a fuggire dalla Libia ed a rifugiarsi in Italia. Ritengo di averlo conosciuto intorno al 70. Questo rapporto si sviluppò nel tempo ed anche ad alto livello. Misi in contatto Yehia prima con il colonnello Minerva, direttore amministrativo del SID, il quale lo mise in contatto con il generale Miceli, Direttore del SID. Ritengo che il Capo del Reparto "D" fosse a conoscenza di questi contatti. Io sicuramente ho scritto ufficialmente sull'argomento. L'importanza di Yehia stava nel fatto che questi era un facoltoso uomo d'affari e che aveva avuto modo, prima di lasciare la Libia, di trasferire all'estero i suoi capitali. La Direzione del Servizio utilizzò Yehia al fine di collocare sul mercato libico armi provenienti dall'industria italiana. Ricordo che nel corso di una "azione" del Centro emersero riunioni presso l'abitazione di Yehia, alle quali avevano partecipato, me compreso, il colonnello Minerva, e altri ufficiali del Servizio. Non vi parteciparono ufficiali del reparto D. Ritengo che di queste riunioni il Capo del Reparto D fosse al corrente. Io alla fine delle riunioni riferivo superiormente.

In queste riunioni veniva discusso il ruolo che Omar Yehia doveva svolgere al fine di accattivarsi la benevolenza di Gheddafi; ciò per arrivare a prospettare al leader libico la possibilità della vendita da parte italiana di armi, ricevendo in cambio petrolio a prezzi vantaggiosi. Ritengo che tale iniziativa del SID avesse il beneplacito delle Autorità governative italiane del tempo. La mia presenza a queste riunioni era saltuaria. Io rappresentavo il Centro Operativo. Devo precisare che Omar Yehia fruiva di una scorta del Centro IV, disposta superiormente. Non conosco l'esito di questa operazione, cioè se effettivamente Omar Yehia fosse o meno riuscito a convincere i libici a comprare le armi in cambio del petrolio. Seppi, tempo dopo, che l'operazione ebbe buon esito.

Preciso che le riunioni avvenivano presso lo studio di Omar Yehia che si trovava in via Massimi, a Monte Mario alto. Ricordo che vidi l'on.le Andreotti visitare Omar Yehia. In altra occasione vidi il Card. Ottaviani.

In questo periodo nei confronti di Yehia vi era in corso un'"azione" del Centro. Posso dire che Yehia era sotto intercettazione. Non ricordo se telefonica o d'ambiente o entrambe." (v. esame Sasso Aldo, GI 19.03.97).

11. Il ruolo di Era Renato, direttore della Clinica "Villa Mafalda".

Quanto ad Era, egli era stato definito "finto avvocato, finto generale dei Carabinieri e finto vertice dei Servizi di Sicurezza", dal Pubblico Ministero di Bologna nella requisitoria per la strage del 2 agosto 80. Il personaggio appare fortemente legato ai vertici dell'Arma dei Carabinieri, tantochè quando l'Ucigos, nel 1985, a seguito di delega dell'AG bolognese, chiedeva informazioni all'Arma dei Carabinieri di Roma sul conto di Era, veniva risposto in prima battuta che si trattava di un Generale dei Carabinieri della Riserva. Alla prima missiva ne seguiva però una seconda, di rettifica, con la quale esso veniva indicato invece come professionista con precedenti penali a carico (v. decreto acquisizione presso Comando Generale Arma CC., 02.12.95).

Ma l'Era non è risultato essere in contatto soltanto con Carabinieri e Servizi; lo è stato anche con l'estremismo di destra ed in particolare con il prof. Aldo Semerari, ucciso nell'aprile del 1982 a Napoli dalla camorra. Questi poco prima di essere ucciso aveva chiamato telefonicamente Era, da Napoli, chiedendogli di essere messo in contatto con i Servizi in quanto si sentiva in pericolo. Era subito chiamava il colonnello Cogliandro, che a sua volta telefonava immediatamente al generale Santovito; questi rispondeva dicendo testualmente al subalterno "ci penso io; tieni la notizia per te" (v. esame Cogliandro Demetrio, PM di Bologna, 06.03.85). Il generale Cogliandro, dopo che la notizia sul contenuto della propria deposizione era stata pubblicizzata sulla stampa scriveva a quel PM, precisandogli che a seguito della telefonata di Era egli non poteva aver informato Santovito, in quanto questi non era più il Capo del Servizio e che probabilmente aveva informato altri. Il generale Cogliandro, sentito nell'ambito di questa inchiesta, nel ricostruire nuovamente le circostanze ammetteva di aver telefonato a Santovito. Alla luce di questa affermazione, c'è da chiedersi per quale ragione un ufficiale del S.I.S.MI, responsabile di un Reparto Operativo, sentisse l'esigenza, nel momento in cui gli perviene una notizia sul conto di Semerari, di avvertire un ex Direttore del S.I.S.MI e di non informare, invece, come prassi avrebbe voluto, la catena gerarchica a salire, in questo caso il generale Pasquale Notarnicola, capo Reparto Operativo, o direttamente il capo del Servizio generale Ninetto Lugaresi, o peraltro le ordinarie forze di Polizia.

Era ha escluso poi di aver fatto parte del Servizio Militare, e ciò in netto contrasto con altra deposizione resa anni prima al PM di Bologna, al quale invece aveva dichiarato - dopo che il PM aveva disposto il suo arresto provvisorio per reticenza - "non ho mai smesso dal 1946 i miei rapporti con il Servizio di Sicurezza Militare, che venivano assicurati attraverso il mio collegamento con il generale Demetrio Cogliandro".

Dalla documentazione trasmessa dal S.I.S.MI sul conto di Era Renato non emerge alcun suo rapporto fiduciario con l'Organismo. L'interesse per il soggetto nasceva nel 44 quando egli venne arrestato dagli Alleati, sotto falso nome, perchè sospettato di essere al soldo dei Tedeschi. Dopo un periodo di oblio, che va dal 45 al 74, attirava nuovamente l'attenzione del Servizio, in quanto si era presentato ad un giovane ufficiale dei CC., comandante la tenenza di Tuscania, spacciandosi per avvocato, generale dei Carabinieri ed appartenente al SID. Ciò provocava accertamenti da parte del Centro CS di Bologna e del Raggruppamento Centri di Roma. Nel 1983 - Cogliandro è già fuori dal Servizio ed il Raggruppamento è stato sciolto dal capo del Servizio Lugaresi - veniva trovato agli atti del disciolto Raggruppamento una informativa sul conto di Era, datata 9 aprile 80, e mai trasmessa alla 1a Divisione, in cui venivano fornite notizie fiduciarie raccolte all'interno di Villa Mafalda, dalle quali emergeva che Era sarebbe stato - a dire della "fonte fiduciaria riservata e qualificata nell'ambiente della clinica" - effettivamente un avvocato ed ex generale di CC., messo in congedo dall'Arma per poter lavorare in incognito in quanto responsabile di un importante settore del Servizio segreto italiano.

12. La scarcerazione di Salem Said.

Si deve aggiungere, sempre al riguardo di questa a dir poco inquietante vicenda, che la scarcerazione del Salem Said era stata preceduta, come risulta dai telegrammi 394 e 395 dell'Ambasciata d'Italia a Tripoli - rinvenuti presso il S.I.S.MI - che l'Ambasciatore Quaroni in quel documento, datato 9 giugno 80 e pervenuto al Servizio Militare l'11 successivo, riferisce di un colloquio avuto con Autorità libiche, che chiedevano, tra l'altro, l'"urgente ricovero di Salem Said seriamente malato in casa di cura e sua liberazione" come "la liberazione restante gruppo che avrà come contropartita la liberazione di italiani detenuti a Tripoli". Nella seconda parte del telegramma l'Ambasciatore, ribadendo sostanzialmente quanto sopra, suggerisce poi "alcuni gesti che mi sembrano possibili... immediato trasferimento in casa di cura di Salem Said ... ed attento riesame suo caso in vista liberazione" (v. acquisizione GI 30.03.96).

Dopo essere tornato in Libia, Salem Said, a dicembre del 1980, risulta aver chiesto, al Raggruppamento Centri del S.I.S.MI di intercedere presso l'ambasciata d'Italia a Tripoli affinchè gli venisse rilasciato il visto d'ingresso in Italia. Il Raggruppamento, per motivi di opportunità, espresse parere favorevole all'ingresso (foglio 7355 del 10 dicembre 80 del Raggruppamento, decreto esibizione 30.06.96). Il relativo permesso gli venne concesso, dall'ambasciata a Tripoli l'11 dicembre successivo.

Nel corso della nota rogatoria a Washington il Capo Stazione della CIA a Roma, Clarridge, al quale veniva chiesto se ricordasse un libico di nome Salem Said, rispondeva testualmente e significativamente "Un uomo cattivo", precisando che era il capo delle operazioni in Italia e l'organizzatore di tutti gli assassinii e che quando fu rilasciato, rimasero sorpresi dal fatto, anche se capirono che Gheddafi aveva probabilmente fatto presa sugli italiani con l'arresto dei connazionali in Libia. (v. esame Clarridge Duane, GI 07.05.96 a Washington).

13. L'appunto per il Presidente del Consiglio
sulla dissidenza libica in Italia.

A tal punto è necessario l'esame del documento di cui sopra s'è fatta menzione, e cioè l'appunto 6 giugno 80 avente ad oggetto la situazione libica in Italia; in particolare del suo contenuto, della sua origine, delle sue destinazioni o dei suoi destinatari, delle visioni e decretazioni di costoro, delle vicende relative alle sue esibizioni, positive o negative che siano state.

Esso fu originato dal Raggruppamento Centri di Controspionaggio il 6 giugno 80 come detto; fu trasmesso il 7 seguente alla 1ª Divisione del Servizio; fu inviato il 9 successivo, dal Direttore Santovito al Presidente del Consiglio Cossiga, al Ministro della Difesa Lagorio e al Segretario Generale del CESIS, Pelosi.

E' diviso in dodici punti che possono essere riassunti come di seguito:

1. vi sono elencati gli obiettivi da raggiungere secondo l'enunciazione di Gheddafi: a) il recupero e rientro in Libia dei cittadini libici non autorizzati a risiedere all'estero; b) la confisca o il congelamento dei beni considerati superflui per condurre un tenore di vita consono ai dettami della religione islamica; c) la neutralizzazione della dissidenza politica all'estero;

2. Vi è sottolineato, tra l'altro, che i tentativi di raggiungere gli obiettivi di cui al punto 1 si sono concretizzati nell'invio in Italia di gruppi di fanatici con il compito di convincere i connazionali a rientrare in Libia o, in caso di rifiuto, di eliminarli fisicamente. I libici residenti in Italia, nonostante alcuni di essi siano stati assassinati, resistono alle pressioni esercitate nei loro confronti, prevedendo la possibilità "di ripresa delle eliminazioni fisiche allo scadere della data dell'11 giugno 80, posta come termine ultimo per il rientro in Libia".

3. E' evidenziato che, di fronte alla volontà libica di continuare l'azione nei confronti dei connazionali all'estero, "appare ormai inevitabile il riesame del problema a livello politico ... sia per definire una "politica" che, pur tenendo conto dei rilevanti interessi intercorrenti tra i due paesi, dia la possibilità di una "risposta negoziata" a vari comportamenti libici, sia per contrapporre a livello realistico alle non sempre ortodosse pretese del governo libico, una unitarietà di comportamenti che dia la possibilità di trovare un compromesso tra la visione autoritaria della Jamahirija e le esigenze di uno Stato di diritto quale quello italiano", concludendo che l'attuazione di una linea operativa concilî sia le direttive di governo che la "combine" tra la via diplomatica e contatti fra Servizi.

4. Vi sono riportate alcune informazioni sui Servizi Informazioni della Libia, che dispone di un "Servizio Informazioni" capeggiato da Belgassem Yunis e rappresentato in Italia da Mousa Salem Elhaji, e di un "Servizio Speciale", capeggiato da Abdalla Senussi che dipende direttamente da Gheddafi. I compiti dei due Servizi consistono: per il primo, tra l'altro, nella ricerca e controllo dei dissidenti libici; per il secondo nella individuazione e ricerca dei dissidenti libici all'estero, con conseguente "invito" a rientrare in Libia od eliminazione fisica in caso di rifiuto.

5. Vi sono riassunti i contatti intercorsi, nel tempo, tra il Servizio italiano e quello libico, contatti che iniziarono nel 70 e si intensificarono nel 71, allorquando il SID intercettò "una velleitaria iniziativa di esuli libici, organizzata all'estero, con base logistica a Trieste, tendente a sovvertire il regime di Gheddafi", per rientrare dopo tale avvenimento nella normalità.

6. Vi si precisa che i rapporti tra i due Servizi, negli ultimi tempi, si sono intensificati a causa della scomparsa dell'Imam Mousa Sadr, avvenuta il 31.08.78, e dell'arresto da parte libica di pescatori italiani sorpresi in acque territoriali libiche. In relazione a queste vicende, i libici, allo scopo di far prevalere la loro tesi, secondo la quale la scomparsa dell'Imam sarebbe avvenuta in Italia, hanno tentato di ottenere, da parte italiana, ammissioni attestanti che l'Imam fosse scomparso in Italia ed hanno anche richiesto, come contropartita alla liberazione dei pescatori italiani, pure tutte le informazioni sugli esuli libici residenti in Italia e su quanto potesse riguardare il fenomeno della dissidenza libica.

"Il S.I.S.MI, in linea di raccordo con le richieste degli interlocutori, nell'interesse dei pescatori italiani detenuti, si limitava a fornire informazioni, peraltro generiche, sul conto di esuli libici non più residenti in Italia". A tal riguardo viene precisato che "numerosi sono stati i contatti con il rappresentante del Servizio Informazioni libico in Italia, Mousa Salem Elhaji, il Capo dello stesso Servizio Yunis Belgassem e la dirigenza del S.I.S.MI al fine di derimere la vertenza", che contemporaneamente "il Governo dava incarico al generale Jucci di portare avanti in Libia un'azione di avvicinamento con le Autorità libiche (Primo Ministro Jalloud)" e che nella circostanza "i libici presentavano una nota relativa alle proprie richieste" che sono state portate a conoscenza del Presidente del Consiglio da parte dello stesso Jucci. Tali contatti portavano, infine, al rilascio dei pescatori detenuti in Libia, mentre "lasciava aperta la questione relativa all'Imam e quella concernente la dissidenza libica in Italia".

7. Vi si riportano informazioni sull'attività svolta da parte del S.I.S.MI nei confronti del Servizio Speciale libico, grazie alla quale è stato possibile individuarne non pochi elementi, facendone espellere alcuni e respingerne altri. Riguardo agli assassinii dei due libici uccisi a Roma, Rteimi Salem e Abdul Jalil Zaki Aref, viene precisato che entrambi erano stati avvertiti del pericolo che incombeva su di loro.

8. Vi è evidenziato che l'approssimarsi della data ultima, l'11 giugno, stabilita da Gheddafi, per il rientro in Libia di tutti i cittadini libici che si trovavano all'estero senza una regolare autorizzazione dei Comitati Popolari, acutizza il problema dei libici residenti in Italia, - la cui stragrande maggioranza non ha alcuna intenzione di ritornare in patria ne di allontanarsi dall'Italia -, problema che è stato affrontato nel corso di un incontro con Belgassem Mousa Salem e il suo capo, al tempo presente a Roma, Yunis Belgassem. Costoro si sono detti in grado di evitare che l'Italia potesse diventare teatro di spargimenti di sangue, intervenendo sia a Roma che a Tripoli, presso i più qualificati esponenti dei Comitati Popolari, ma che per raggiungere tale scopo, avrebbero avuto bisogno di portare a soluzione taluni problemi che stanno a cuore a Gheddafi.

9. Sono elencate le questioni che interessano i libici e cioè:

a) un elenco aggiornato di tutti i libici dimoranti in Italia "allo scopo di studiare insieme ad elementi del S.I.S.MI quali potrebbero essere le persone da invitare ad allontanarsi dall'Italia o a rientrare in Libia";

b) lo scambio di cittadini libici detenuti in Italia per omicidio, tentato omicidio e favoreggiamento in tali delitti nei confronti dei loro connazionali domiciliati in Italia, con italiani detenuti in Libia, in particolare del già detto Marghani Mohamed e Corsi Franco, capo-scalo Alitalia a Tripoli, di cui pure si parla in questo provvedimento;

c) la scarcerazione di Salem Said Salem, arrestato per concorso nell'attentato a Mohamed Salem Fezzan (22.05.80), di cui le Autorità libiche fanno un caso a parte e di cui si aspetterebbero una soluzione straordinaria;

d) la distribuzione del giornale della dissidenza libica "Saut Libia", di cui sono ritenute responsabili le Autorità italiane che nulla fanno per impedirla;

e) il caso relativo all'Imam Mousa Sadr, di cui si richiede ancora una volta una soluzione secondo la tesi libica, nonostante la chiusura dell'AG italiana, per la quale quell'Imam non aveva viaggiato verso l'Italia il giorno della sua scomparsa.

10. Vi si sottolinea che Yunis Belgassem e Mousa Salem, qualora riuscissero ad ottenere risultati positivi su quanto richiesto al punto 9, potrebbero riferire a Tripoli "che la presenza e l'attività dei Servizi Speciali libici, non è necessaria e che le questioni che sorgono possono essere appianate, per le vie pacifiche".

11. Sono riportate le situazioni della Germania, Gran Bretagna e Francia, e gli orientamenti dei rispettivi Governi nei confronti del problema delle presenze libiche sui loro territori.

12. Vi si conclude che il S.I.S.MI "si sta adoperando per creare una atmosfera preparatoria che sia propizia a più larghe intese tra i due Paesi e quindi a contatti più solidi e concreti soprattutto a livello diplomatico"; che il lavoro presuppone "in un contesto di intesa con altri organi dello Stato, una visione del problema concreta ed avveniristica, condotta necessariamente, a volte, al di fuori degli schemi tradizionali e consentiti"; e che quindi "in questo spirito l'azione viene condotta con l'auspicio di un supporto politico che appare più che mai necessario, per affrontare quegli aspetti che, istituzionalmente, sono collocati al di fuori dei compiti e delle prerogative del Servizio.

Il documento era custodito nella pratica "2LI-1/4-961" della 1a Divisione del S.I.S.MI. Ricercato presso i destinatari, non fu rinvenuto presso il Ministero della Difesa; fu rinvenuto invece presso il CESIS e presso la Presidenza del Consiglio (v. missiva P.C.M. datata 01.04.96). Sull'esemplare del CESIS si rileva l'annotazione a matita "10/6 - fatta copia per l'on.le Mazzola" e alla data del 12.06.80 "Atti" (v. decreto acquisizione al CESIS in data 30.06.96). L'on.le Mazzola ha escluso invece di aver mai preso visione dell'appunto. E' bene riportare per esteso la sua testimonianza sul punto: "Escludo di aver mai letto o visto una nota del genere. Lo escludo in particolare per effetto di quanto si legge nell'ultima frase di cui mi si dà contezza e cioè perché una richiesta del genere non deve essere mai compiuta e ove si ponessero in essere attività del genere esse rientrerebbero in quella sfera di discrezionalità e competenza del Servizio. Escludo che il Presidente del Consiglio mi abbia mai parlato di questa nota" (v. esame Mazzola Francesco, GI 23.04.96). Il medesimo, preso atto che il documento gli sarebbe stato inviato in copia - così come risulta dalla missiva agli atti del CESIS - modificava la prima dichiarazione, affermando sì di non ricordare il documento, ma che aveva l'abitudine di vistare tutti i documenti sottoposti alla sua attenzione e comunque i documenti ritornavano al CESIS, non avendo egli, nella sua funzione di Sottosegretario, un proprio archivio. Presa visione del documento ravvisava argomenti da lui conosciuti, come quello relativo alla scomparsa dell'Imam Mousa Sadr, dei pescherecci sequestrati e dei libici residenti in Italia.

Su quello della Presidenza del Consiglio appaiono soltanto impressioni di timbri ed annotazioni minime "di archiviazioni", ma non vere e proprie decretazioni. I timbri sono di arrivo e di protocollazione, entrambi del Gabinetto Segreteria Speciale della Presidenza ed in data 23 giugno 80, quattordici giorni dopo la data della nota di trasmissione. Le annotazioni, apparentemente di tre mani diverse, sono le seguenti: "21.06.80 - Alla Segreteria Speciale. Squillante. Attenzione. Prego far fascicolo "Libia" (c'è già)". Al fascicolo. 23.06.80, preceduto da una sigla illeggibile. Come si vede nessuna decretazione, e solo annotazioni, per archivio e di gran lunga successive all'invio del documento e alla probabile ricezione, e ai gravissimi fatti che si sono verificati in prossimità e proprio il giorno della scadenza dell'ultimatum gheddafiano ed immediatamente dopo.

Il 12 giugno in occasione della Riunione dei Direttori del CESIS-S.I.S.MI e S.I.S.DE, si rileva, da un appunto manoscritto acquisito al CESIS, che uno degli argomenti trattati è stata la "Questione libici (Salem Said)". Non si è però potuto conoscere il contenuto dell'argomento, in quanto quelle riunioni non venivano verbalizzate e rimaneva soltanto traccia degli argomenti trattati.

Il 15 giugno 80 al Cairo si svolse, come s'è detto, una riunione di oppositori libici in esilio alla quale parteciparono circa 1800 persone in parte convenute anche da altri Paesi. Durante la riunione furono tra l'altro prospettati atti di rappresaglia contro il regime libico. Il Colonello Gheddafi, come s'è detto, reagì con pesanti dichiarazioni antiegiziane, alle quali il regime del Cairo rispose proclamando lo stato di emergenza nell'area di confine tra i due Paesi ed incrementando il dispositivo militare alla frontiera. La Libia, a sua volta, ravvisando nello stato di emergenza decretato dal Cairo una vera e propria dichiarazione di guerra, rafforzò il proprio apparato bellico nella zona orientale e si predispose a reazioni armate.

A conferma del clima "caldo" nel Mediterraneo si deve anche sottolineare che l'8 luglio 80 alcune motovedette della Marina libica intercettavano in mare, a circa 24 miglia da Tripoli, due pescherecci siciliani, l'Argonauta e il Poseidone. Entrambi i natanti furono sequestrati, mentre i 23 componenti dell'equipaggio (12 del Poseidone e 11 dell'Argonauta) furono tratti in arresto, con l'accusa di sconfinamento nelle acque territoriali della Libia e pesca abusiva. La sentenza del Tribunale di Tripoli fu di un anno di carcere per i capitani e l'assoluzione dei componenti dell'equipaggio. I natanti vennero confiscati e solo in data 07.07.87 gli armatori riuscirono ad alienarli alle Autorità Libiche.

Acquisita presso il S.I.S.MI la documentazione inerente questa vicenda, veniva rinvenuto un appunto allegato alla lettera di trasmissione dell'8.01.82, in cui si legge che fonte confidenziale riferiva che i sequestri dei due pescherecci di Mazara del Vallo da parte delle motovedette libiche, erano "fittizi" o comunque "combinati". Infatti, dopo la cattura, le imbarcazioni ricoverate in cantieri libici, sarebbero state sottoposte a lievi modifiche per ricavarne, presumibilmente nella chiglia, nascondigli per armi destinate ai libici residenti in Italia. Tuttavia queste affermazioni - conclude i documento - non hanno mai trovato dei riscontri oggettivi, ad eccezione di analoghe e incontrollabili voci.

Durante questa situazione avvennero tutti gli eventi di cui a lungo s'è scritto, dalla caduta del DC9 al quella del MiG23, e relativi fatti connessi.

14. La rivolta di Tobruk ed il coinvolgimento di cittadini italiani.

Nel periodo in cui si verificò il disastro di Ustica, la situazione internazionale era, come s'è visto, particolarmente tesa. Per l'Italia, il 1980 è l'anno in cui si incrinano, per la prima volta, le relazioni economiche e politiche poste in essere faticosamente negli anni settanta con la Libia, mentre i rapporti tra quest'ultima e gli Stati Uniti sono caratterizzati da forti contrasti. E' un anno segnato da sanzioni e rappresaglie economiche, boicottaggi ed embarghi, campagne di eliminazione, assalti alle ambasciate e sequestri di personale diplomatico. In questo contesto si inserisce il progetto di rovesciamento militare di Gheddafi, basato sull'iniziativa congiunta delle forze armate egiziane e dei militari libici dell'opposizione al leader libico. Un ruolo primario in tale operazione ebbe Idris Shahibi, Governatore di Tobruk, il quale avrebbe fornito agli egiziani informazioni e mappe delle difese militari approntate dai libici a ridosso della frontiera con l'Egitto. Contemporaneamente all'attacco egiziano, Shahibi avrebbe dovuto occupare alcune basi militari con truppe di sua fiducia.

La città di Tobruk non era nuova a queste sollevazioni. In una nota del S.I.S.MI si legge che già il 20 marzo si erano verificati scontri, con morti e feriti, tra esponenti dei Comitati Rivoluzionari e commercianti del souk. All'origine degli scontri l'atteggiamento repressivo dei Comitati che, in nome dell'applicazione delle teorie rivoluzionarie di Gheddafi, commettevano gravi soprusi e vendette personali. La nota del S.I.S.MI continua sottolineando che era la prima volta che si registrava in Libia una sollevazione di così vaste proporzioni.

Sempre dalle carte del S.I.S.MI si rileva un'altra nota datata 19 agosto 80 concernente alcune notizie apprese sulla fallita insurrezione di Tobruk del 6 agosto. Questo documento precisava che: le forze insurrezionali avevano progettato di impossessarsi della base aerea di El Nasser (Tobruk) e successivamente, con l'appoggio diretto di forze egiziane, di tutta la Cirenaica; il maggiore Idriss che capeggiava la rivolta, si sarebbe suicidato per non essere catturato; - il giorno 9 agosto precedente la polizia avrebbe scoperto una cellula eversiva composta di militari che operava ad Agelat (Tripoli), riuscendo ad arrestarne alcuni; - fosse possibile che tali elementi avrebbero dovuto agire in concomitanza con i rivoltosi di Tobruk; - fermenti nell'ambito delle FF.AA erano stati individuati anche in Fezzan; - il Ministro degli Esteri Treki sarebbe riparato in Egitto perché coinvolto nel complotto; - di qui con ogni probabilità la mancata partecipazione della delegazione libica alla conferenza del "Comitato per Gerusalemme" che avrebbe dovuto essere guidata appunto da Treki; - la situazione, dopo alcuni combattimenti iniziali che avrebbero causato morti e feriti e dopo il trasferimento di numerosi militari di stanza a Tobruk, Tripoli e Kufra, sarebbe ritornata alla normalità (v. cartella 20 atti Stato Maggiore S.I.S.MI, acquisizione del 20.04.95).

In altro documento all'oggetto "tentativo di rivolta da parte della 9a Brigata libica di stanza a Tobruk", senza data, ma redatto in tempi più recenti - verosimilmente verso la fine dell'88 - si rileva che per il 6 agosto di quell'80 cioè lo stesso giorno della rivolta, al S.I.S.MI erano giunte le prime notizie. Nel documento vengono elencate cronologicamente le notizie apprese dalla 2ª Divisione con a fianco le date in cui le stesse erano state al tempo fornite. E' bene riportare per intero i primi due punti del documento:

"1. 06.08.1980: un Maggiore libico, tale Sheybi Idriss, avrebbe capeggiato una rivolta delle Forze Aeree presenti a Tobruk, a cui si sarebbero uniti anche agenti provenienti dall'Egitto;

07.08.1980: le Forze Militari di Bengasi vengono poste in stato di allarme ed una Compagnia di berretti rossi viene aviotrasportata a Tripoli per assicurare la vigilanza delle Caserme;

08.08.1980: la notizia del presunto ammutinamento a Tobruk non trova conferma a Tripoli;

13.08.1980: viene segnalata l'istituzione di posti di blocco e di controllo delle strade che adducono a Tobruk, con impiego di carri armati e postazioni di mitragliatrici. Il maggiore Idriss, Comandante delle Forze di Difesa dell'Aeroporto, avrebbe preso posizione con i suoi uomini su alcune alture da cui era possibile controllare le rampe missilistiche, nonché il sistema radar;

03.02.1982: non si era ancora in grado di acquisire una versione definitiva dell'accaduto. Sembra che il maggiore Idriss, approfittando della parentela con Gheddafi per aver sposato una sua parente, avesse esercitato nella Regione Orientale, fino all'agosto 1980, una notevole influenza quale responsabile dei Servizi informativi. Lo stesso, avvalendosi dell'incarico ricoperto, era riuscito ad avere dalla sua parte varie tribù, con le quali avrebbe tentato di rovesciare il regime del Colonnello. Gheddafi informato del tentativo, prima che l'insurrezione scoppiasse, avrebbe fatto cingere d'assedio la regione di Tobruk, nell'intento di arrestare il maggiore ed i suoi seguaci. Il maggiore Idriss, pur essendo sfuggito alla cattura, non era riuscito a porsi in salvo, in quanto, come asserito dalle stesse fonti ufficiali libiche, fu trovato morto nel deserto, forse mentre si dirigeva verso il confine con l'Egitto.

2. Nel dicembre 1980, il Raggruppamento Centri CS di Roma informa che le notizie del possibile ammutinamento di Tobruk sono state confermate da un dissidente libico residente a Roma, tale Salem Ibrahim Salem Dwela. Il soggetto, in merito aveva affermato che il Comandante della 9a Brigata, tenente colonnello Idriss Sheybi, d'accordo con altri ufficiali, aveva messo a punto un piano per tentare un colpo di Stato, confidando sull'appoggio degli Egiziani, che sarebbero dovuti partire da Giagbud ed occupare una vasta zona della Cirenaica, costituendo un Governo provvisorio. All'ultimo momento gli Egiziani avrebbero ricevuto l'ordine di non muoversi, ordine che sarebbe giunto in Egitto da Washington.le Il complotto sarebbe stato scoperto due giorni prima della sua pratica attuazione, dai Servizi segreti libici, i quali, convocato a Tripoli l'ufficiale, dopo averlo interrogato e torturato, lo avrebbero fucilato. La rivolta sarebbe stata sedata in sette giorni, con l'uccisione di oltre quattrocento soldati e con la resa degli altri". (v. atti Stato Maggiore S.I.S.MI cartella n.19, acquisizione del 20.04.95).

Lo Sheybi, grande amico dell'imprenditore italiano Edoardo Seliciato, titolare della società di import-export Selexport con sede anche in Libia, aveva utilizzato costui come intermediario con le autorità egiziane. Il Seliciato a sua volta aveva coinvolto altri due italiani e cioè l'architetto Enzo Castelli e Aldo Del Re, in Libia per ragioni di affari; assieme a quest'ultimo Seliciato si era recato presso l'ambasciata egiziana di Roma per discutere del piano militare.

Il progetto, che fallì per difetto di preparazione e coordinamento, portò - oltre alle conseguenze sui militari libici, in particolare sulla guarnigione di Tobruk - all'arresto nell'agosto del 1980 di Seliciato e Castelli e ad un processo in contumacia a carico di Del Re, con le accuse di tentato colpo di Stato, cospirazione e tentato omicidio ai danni di Gheddafi. Seliciato e Castelli furono condannati dal Tribunale militare, il primo alla pena capitale per impiccagione, il secondo alla pena detentiva di anni 10 di reclusione. In secondo grado il Tribunale ordinario tramutò la condanna a morte di Seliciato in quella dell'ergastolo. Del Re invece venne condannato all'ergastolo in contumacia.

Il tentato rovesciamento del regime di Gheddafi, portò anche all'arresto di un altro italiano, Orlando Peruzzo, dipendente dell'azienda Wo.Ma.Ar. di Padova interessata alla commercializzazione di capannoni industriali per uso avicolo con la Libia, che si trovava in questo Paese per ragioni di affari. Il Peruzzo, non avendo mai avuto una contestazione formale di accuse in quanto ritenuto estraneo ai fatti, venne rilasciato dopo quattro mesi di prigionia.

Il 6.10.86 a seguito di trattative tra il nostro Governo e quello di Tripoli Seliciato e Castelli venivano scambiati con tre detenuti libici in Italia, Joussef Uhida Msallata, Mohamed Sitki Said Ducs e Yumaa Mohamed El Mezdawi, accusati di attività terroristiche contro connazionali dissidenti, come si specifica in altra parte di questa motivazione. Il Msallata reo confesso, era stato arrestato il 19.04.80 per l'omicidio del connazionale Abduljalil Zaki Aref, mentre Mohamed Sitki Said Ducs era stato arrestato in flagranza di reato il 24.02.81, unitamente al Yumaa Mohamed El Mezdawi, nel corso di un'azione terroristica compiuta all'aeroporto di Fiumicino ai danni di un loro connazionale.

Le modalità sullo scambio dei prigionieri si rilevano da una nota del S.I.S.MI del 7 ottobre 86. Alle 00.30 del 7 ottobre a seguito della conferma telefonica che da Tripoli era partito l'aeromobile con a bordo i cittadini italiani, i detenuti libici decollavano a bordo di un aereo libico alla volta della Libia. Alle 02.35 successive giungeva presso l'aeroporto di Ciampino l'aeromobile della Croce Rossa Internazionale con a bordo i cittadini italiani Seliciato, Castelli ed altri due connazionali, accompagnati da un cittadino svizzero ( v. nota 07.10.86 del Centro CS "A" in atti Stato Maggiore del S.I.S.MI cartella nr. 19, decreto di esibizione 20.04.95).

Al fine di meglio comprendere il ruolo dei connazionali nell'insurrezione è stata raccolta la loro testimonianza. Il Peruzzo ha dichiarato di aver avuto l'occasione di conoscere Castelli e Seliciato pochi giorni prima del suo arresto, presso la sua azienda a Tripoli. Escludeva di essere stato coinvolto nel colpo di Stato ai danni del Governo libico e di aver partecipato alla sua realizzazione. Asseriva che in occasione di un suo viaggio a Tobruk, nei primi di luglio del 1980, Castelli e Seliciato gli avevano consegnato delle planimetrie, da portare a Tripoli, affermando che si trattava di planimetrie relative ad un impianto avicolo. Peruzzo ricordava di aver portato quelle cartine a Tripoli e che Castelli si era offerto di portarle in Italia personalmente (v. esame Peruzzo , GI 31.10.90).

Elementi di conferma del tentativo di rivolta sono giunti da Seliciato, titolare della sede di Tobruk della ditta import export Selexport di Padova, che frequentava la Libia dal 75. Questi dichiara di essere stato arrestato in Libia il 2 agosto 80, poco prima delle 24. Da pochi minuti aveva appreso dalla radio italiana che la mattina era esplosa una bomba alla stazione ferroviaria di Bologna, e di essere stato accusato di tentativo di colpo di Stato, di cospirazione e di tentato omicidio ai danni di Gheddafi.

Seliciato afferma che il colpo di Stato era stato organizzato dal capitano Idris Sheybi, un ufficiale che aveva partecipato all'altro golpe, quello del 69 che portò al rovesciamento di re Idris ed alla presa del potere di Gheddafi. Motivo scatenante del tentativo - continua Seliciato - erano stati gli scontri violenti verificatisi a Tobruk nel maggio e giugno 80 tra i Comitati rivoluzionari e la popolazione civile, che avevano provocato morti e feriti. Sheybi a seguito di questi sanguinosi eventi si rifiutò di eseguire una rappresaglia nei confronti delle persone coinvolte nei disordini; di qui dissidi con Gheddafi. Ma da questo momento anche l'avvio del progetto insurrezionale, che Sheibi nutriva già da tempo. Fu Sheybi medesimo a rivelargli i progetti di sollevazione per spodestare Gheddafi. Progetti finalizzati da una parte al riavvicinamento della Libia all'Occidente, dall'altra a chiudere i rapporti con i paesi dell'Est. Seliciato aggiunge anche di aver percepito i segnali di rivolta ancor prima delle confidenze di Sheybi. Ricorda che Ahmed Marzuk, uomo di fiducia di Sheybi, qualche mese prima di Tobruk gli aveva fatto richiesta di un fucile di precisione; richiesta però che il giorno successivo era stata annullata. Va subito detto che tale richiesta ha trovato conferma nelle dichiarazioni di Del Re, che la ritenne come un sondaggio della loro affidabilità. Egli non credette che il fucile di precisione dovesse servire alla caccia grossa, ma stimò che sarebbe stato usato per compiere un attentato a Gheddafi. (v. esame Del Re Aldo, GI 05.10.90).

Seliciato riferisce che la sua posizione era ritenuta utile da Sheybi in quanto costui aveva bisogno della necessaria copertura aerea da parte del regime di Sadat. Per raggiungere tale scopo egli si era affidato ad un proprio dipendente cioè Aldo Del Re che, attraverso un suo amico iracheno, riuscì a contattare l'Ambasciatore d'Egitto a Roma. A seguito di questo incontro, essendo in Italia, fu raggiunto all'aeroporto di Roma da un funzionario dell'ambasciata d'Egitto, che gli comunicò l'accettazione da parte dell'Egitto delle richieste di Sheybi. Nella circostanza gli veniva anche il luogo al confine tra l'Egitto e la Libia - Sîwa - dove si sarebbero incontrati rappresentanti del Governo egiziano e un delegato del "New Movement" di Sheybi. Il delegato designato fu Marzuk, come ebbe modo di apprendere dallo stesso nel corso della comune detenzione dopo i fatti di Tobruk. Quest'ultimo - afferma - si diceva convinto che l'insurrezione non ebbe successo a causa della delazione di un italiano, che avrebbe riferito il progetto a Tripoli.

Illustra poi i suoi rapporti con Castelli e il ruolo di costui nella vicenda, al quale si era rivolto ancor prima che al Del Re per gli scandagli presso gli egiziani. Questi tentò autonomamente anche di sostituirsi a Seliciato nell'incarico ricevuto da Sheybi, ma il libico - riferiva Seliciato - avrebbe negato al Castelli l'esistenza del progetto (v. esame Seliciato Edoardo, GI 05.10.90). Quindi Seliciato con le sue ammissioni di responsabilità conferma la partecipazione al golpe di agosto 80. Se da un lato scagiona Castelli dalla compartecipazione al tentativo di insurrezione militare, dall'altra lancia precisi messaggi di responsabilità a suo carico per la "soffiata" ai libici sulla rivolta in progetto.

Castelli ha negato, invece, di essere stato incaricato da Seliciato di contattare gli egiziani. Ha però confermato la conoscenza di un gruppo di Libici coinvolti nel tentativo di colpo di Stato, tra i quali Marzuk che gli faceva strani discorsi sugli stretti contatti tra i Servizi libici e quelli italiani. Il Castelli colloca questi discorsi come avvenuti nel luglio 80. Ed è proprio nel ricordare i discorsi con Marzuk che Castelli riferisce un episodio che potrebbe aver diretto riferimento alla vicenda di cui è processo. Castelli ricorda che chiese a Marzuk se corrispondesse a verità la voce secondo cui Gheddafi forniva aiuto ai terroristi italiani delle Brigate Rosse, così come veniva affermato da un periodico italiano. Marzuk alla domanda "sembrò chiudersi" e fece cadere il discorso, dopo aver detto che queste cose erano nella responsabilità di Gheddafi. In seguito però ritornò sull'argomento per far capire che essi erano in disaccordo con Gheddafi anche per l'appoggio ai terroristi italiani. Aggiunse: "è lui che fa abbattere gli aerei italiani". Castelli precisa che dopo questo esplicito riferimento non si tornò più sulla questione. Ma altra conferma alla sua versione, Castelli la riceve nel corso della detenzione. Ricorda che "mentre ero detenuto durante il processo militare, vidi un uomo tenuto in rigorosissimo isolamento; questi non era imputato con noi, ma semplicemente era detenuto in una cella vicina alla nostra. In seguito un altro pilota, che era in cella con me, mi disse che l'uomo in isolamento era un capitano pilota che, dopo aver compiuto operazioni in Europa, era caduto in disgrazia. In seguito, l'ufficiale pilota che era detenuto nel mio stesso gruppo di celle, quasi scherzando e passandomi vicino durante l'ora d'aria, mi disse: "Muhammar vi butta giù gli aerei". La battuta fu fatta in inglese; egli usò il verbo "Put Down" o "Knock Down" ed il nome Muhammar che è il nome di Gheddafi". Aggiunge, infine che l'ufficiale era detenuto insieme a Marzuk, con il quale aveva rapporti costanti (v. esame Castelli Enzo, GI 05.10.90).

Come s'è detto Castelli riceve le confidenze di Marzuk nel luglio 80. Marzuk è uomo di Sheybi vicinissimo a Gheddafi, e pertanto il riferimento all'abbattimento da parte di Gheddafi di aerei italiani appare di particolare interesse, tenuto conto anche dell'epoca in cui queste confidenze vengono fatte. Seliciato però senza dubbio più vicino a Sheibi, a Marzuk e agli altri ufficiali, nulla riferiva su un coinvolgimento libico nell'abbattimento dell'aereo italiano.

Del Re conferma le dichiarazioni rese da Seliciato ed il ruolo avuto nella vicenda. Dichiara però di essere venuto a conoscenza del progetto di insurrezione sin dal 79 in Germania, da un funzionario libico. Conferma l'incarico affidatogli da Seliciato di recarsi in Egitto allo scopo di cercare in quel Paese l'appoggio aereo al golpe, in quanto gli insorti, forti nei reparti di terra, erano totalmente sprovvisti di copertura aerea. Colloca la missione in Egitto tra il 30 luglio ed il 4 agosto 80. Poi descrive la missione e gli incontri ad alto livello: "Viaggiai in incognito, partendo da Roma per il Cairo con un aereo di linea dell'Egypt Air. Nella capitale egiziana fui ricevuto da emissari del presidente Sadat, che mi accompagnarono poi ad Alessandria. Qui io avrei dovuto attendere che i libici passassero la frontiera a Sallum, portando la prova del progetto ed addirittura i piani dell'operazione. L'incontro avvenne tra il 30 luglio ed il 4 agosto. Dopo l'arrivo dei libici ci trasferimmo con loro al Cairo, dove ci furono gli incontri sia con Sadat che con Mubarak, che all'epoca era capo dell'esercito" (v. esame Del Re Aldo, GI 05.10.90)

Deve esser precisato che sia Seliciato che Del Re hanno escluso contatti per la vicenda con Servizi italiani.

Negli atti acquisiti presso il Ministero degli Affari Esteri relativi al loro arresto si legge che durante il processo libico a Seliciato, accusato di "intelligenza con Paese straniero" per rovesciare il regime libico, aveva avuto contatti con l'ambasciata egiziana a Roma. Seliciato sarebbe stato - secondo l'accusa - latore di un messaggio del Maggiore libico Idriss El Shaibi a un funzionario dell'ambasciata egiziana a Roma, che incautamente insieme a Del Re sarebbe stato affidato per la traduzione a studente arabo, che risultò essere un informatore dell'ambasciata libica a Roma. Cosicché questa legazione potè raccogliere prove fotografiche della visita di Seliciato all'ambasciata d'Egitto. I contatti romani con l'Ambasciata d'Egitto a Roma e la trasmissione agli Egiziani di documenti e carte relative a postazioni militari libiche in zona di confine venivano così a costituire le principali fonti d'accusa di Seliciato. Castelli, invece, era accusato di aver predisposto disegni di postazioni militari libiche e piante topografiche della zona di Tobruk a confine con l'Egitto. Mentre Seliciato aveva confermato il proprio ruolo, Castelli negava alcuna sua implicazione in disegni eversivi, limitandosi ad affermare di aver agito su istruzioni di Seliciato, suo datore di lavoro, senza conoscere i reali motivi dell'uso che si intendeva compiere del materiale da lui predisposto.

E' possibile rilevare il ruolo di Del Re da una nota verbale dell'Ambasciata libica a Roma, con la quale veniva trasmessa alle nostre autorità un'ulteriore nota giudiziaria libica, nella quale erano sintetizzati gli elementi a carico di Seliciato, Castelli e Del Re. Nella nota si legge che la vicenda emerge dalle dichiarazioni di Seliciato che aveva dichiarato a quelle Autorità che "nel luglio 80, era stato incaricato dal Capitano Idris El Shehebi di tentare di mettersi in contatto con le autorità egiziane per permettere ad un suo delegato di attraversare il confine egiziano, e di farlo ricevere da Sadat per consegnargli una lettera; egli accettò di eseguire la missione e partì per l'Italia mettendosi in contatto con il suo amico sig. Aldo Del Re, e gli espose la missione e gli chiese di aiutarlo. Quest'ultimo si avvalse dell'aiuto di un uomo d'affari di Milano (non ha dato il suo nome ma lo ha solamente descritto, e che egli era già intervenuto in Svizzera per facilitare l'ingresso dello Scià di Persia in Egitto dopo il suo ritorno dall'America). Il sig. Del Re fece il suo possibile e chiese a Seliciato di venire a Roma per incontrarsi con il Segretario dell'ambasciata Egiziana di nome Mohamed, e quest'ultimo l'informò dell'approvazione della Autorità Egiziane a ricevere un delegato del capitano Idris El Shehebi, e gli indicò la parola d'ordine e la strada da seguire. La missione fu portata a termine come da accordo. Anche il sig. Del Re partì per l'Egitto e alloggiò presso l'albergo Santo Stefano in Alessandria" (v. esibizione Ministero AA.EE. dell'11.10.90).

Del Re fornisce anche elementi sulla vicenda della caduta del MiG libico a Castelsilano. Egli ha ricordato di averne parlato con due generali, uno dei quali di nome Guglielmetti, nell'ambito di una serie di incontri, avvenuti negli anni 85-86, presso la sede della società ICER di Roma; incontri per determinare l'apertura di un canale con i libici per la fornitura di parti di velivoli. In una di queste occasioni si parlò incidentalmente della vicenda di Ustica e di quella relativa al MiG libico. Il generale Guglielmetti gli riferì che il MiG 23 non era in mano libica e comunque non era correlabile con l'incidente di Ustica, giacchè il suo raggio di azione non gli avrebbe permesso di fare "tutto quel giro". Egli però non ha mai saputo a quale "giro" si riferissero. Quei generali gli dissero anche che la verità sul disastro di Ustica "era meglio che non veniva fuori, altrimenti si sarebbe scatenato un polverone a livello internazionale" (v. esame Del Re Aldo, GI 05.10.90).

Nel corso di un incontro con il giornalista De Marchi e sulla base di quanto riferitogli dai citati generali, Del Re congettura come cause del disastro di Ustica, sia quella dell'esplosione di bomba che quella di missile. Le ragioni dell'abbattimento le riconduce al traffico di parti di ricambio e di armi per aerei; a tale proposito afferma che le rotte percorse dai libici per occultare i loro movimenti, erano Bologna-Palermo, Palermo-Malta e Malta-Libia. Spiega che una delle chiavi di lettura per chiarire la tragedia di Ustica poteva essere nascosta nella lista dei passeggeri che avevano prenotato, ma non erano partiti, così come gli avevano riferito i generali (v. esame Del Re Aldo, GI 05.10.90). Infatti suppone che in quella lista vi fosse il nominativo di una persona che aveva con sé dei documenti segretissimi inerenti il traffico sopra menzionato (v. esame Del Re Aldo, GI 18.10.90).

Riferiva inoltre di aver comunicato le confidenze ricevute all'ICER al generale Miceli in alcuni incontri avuti in un palazzo di Via del Corso nei pressi della Rinascente, nel periodo in cui questi era parlamentare. Gli incontri, precisa Del Re, miravano a sollecitare la liberazione dei suoi amici ristretti in Libia. Ricorda che in una circostanza Miceli gli disse di aver aiutato nel passato Gheddafi nella presa del potere, convinto che questa scelta corrispondesse agli interessi italiani. Il generale Miceli ha escluso di aver conosciuto Del Re così come di aver ricevuto notizie sul colpo di Stato a Tobruk e sulla caduta del MiG libico, diverse da quelle provenienti da fonti parlamentari (v. esame Miceli Vito, GI 17.10.90).

Tuttavia il PM osserva, giustamente, che il generale Miceli è risultato buon amico di quel Nisi Marcello, che avrebbe messo in contatto Del Re con Guglielmetti, cosicché non appare inverosimile che al parlamentare Del Re si sia rivolto nel tentativo di aiutare gli amici in difficoltà in Libia.

Del Re riferisce quindi di aver appreso nei mesi di maggio e giugno dell'80 da alcuni libici, che accompagnava alle cure ad Abano Terme, che ufficiali o sottufficiali dell'Aeronautica Militare italiana, "che si trovavano in Libia per addestrare i libici alla guida degli aerei, avevano passato" a Gheddafi delle notizie tecniche sui "vuoti" della copertura radar e sui punti deboli della Difesa Aerea italiana. Secondo quanto riferito sempre dal Del Re, questa informazione egli l'aveva comunicata al sostituto procuratore di Venezia Tiribilli, il quale gli aveva consigliato di non rivelarla a nessuno, dandogli nel contempo assicurazione che se ne sarebbe occupato personalmente (v. esame Del Re Aldo, GI 18.10.90).

Ha anche riferito che durante una cena in un albergo di Amsterdam, alla presenza di appartenenti ad organismi di polizia e Servizi di sicurezza di altri Paesi, un francese, appartenente allo SDECE, aveva dato un'interpretazione particolare della strage di Ustica, secondo cui essa sarebbe maturata nell'ambito di un contesto di lotte tra "gruppi" italiani. Sosteneva costui in particolare che vi era una "cricca" formata da elementi dei servizi segreti, politici e uomini d'affari, che voleva danneggiare un grosso personaggio italiano. Tale gruppo, secondo quanto riferito dal francese, era condizionato dalla CIA e si sarebbe dovuto avvalere di un gruppo di legionari francesi per raggiungere lo scopo. La caduta del DC9 sarebbe stata riconducibile ai contrasti sorti tra i mandanti dell'organizzazione e i legionari, contrasti in conseguenza dei quali, come atto dimostrativo, il DC9 sarebbe stato abbattuto con un missile. Fonte di tale ricostruzione, riferiva al Del Re l'ufficiale francese, sarebbe stato un non meglio indicato ufficiale dell'Aeronautica Militare italiana in servizio presso la NATO a Bruxelles. Su esplicita richiesta del Del Re, il francese affermava altresì che vi era una correlazione tra la strage di Ustica ed il MiG caduto a Castelsilano, specificando che questo velivolo, dopo essere stato in Jugoslavia per riparazioni, era stato parcheggiato in Italia in uno degli aeroporti speciali usati dai Servizi (v. esame Del Re Aldo, GI 13.11.91).

Della questione trattata nel primo incontro con i due generali dell'AM e cioè la ricerca di un canale per la vendita di parti di ricambio di velivoli alla Libia, il Del Re ha parlato più volte nel corso delle sue escussioni. Egli, mentre si trovava presso la sede della società ICER sita in via Montezebio a Roma, nel corso di una serie di riunioni con Marcello Nisi, cittadino americano che in Italia si occupava di appalti e forniture internazionali, aveva conosciuto, come sopra si diceva, due alti ufficiali dell'Aeronautica, dei quali ricordava solo il nome di uno ovvero Guglielmetti, che richiesero la sua disponibilità "a promuovere contatti in Libia per la fornitura di parti di aereo"; proposta a cui però il Del Re non aveva aderito. (v. esame Del Re Aldo, GI 15.10.90).

Il teste nel corso degli esami testimoniali ricostruiva con più precisione gli incontri. La riunione con i due generali, che aveva avuto luogo nel 1984, era stata organizzata dal ragioniere Scordino, presentatogli come suocero di Guglielmetti da un imprenditore romano. Il ragioniere aveva riferito al teste che il generale aveva necessità di parlargli, presso gli uffici della ICER, per una "questione importante". Ai primi incontri di Del Re con il Guglielmetti aveva assistito anche un Egiziano che presumibilmente si chiamava Fracassi; in seguito quando la discussione era passata alle questioni tecniche su parti di ricambio di velivoli, era intervenuto un collega del Guglielmetti, che dovrebbe essere stato il generale Tascio, in quanto a suo dire era l'unico nome presente nel ruolo degli ufficiali dell'AM in servizio nel 1984 , che si avvicinasse al nome da lui ricordato e cioè Tasca. Dava una descrizione fisica di questo secondo generale, ma quando gli viene mostrata la foto del passaporto del generale Tascio, non lo riconosce con certezza. (v. esami Del Re, GI 15 e 18.10.90).

Anche il confronto tra il generale Tascio e il Del Re non sortiva effetto, in quanto quest'ultimo non riconosceva con sicurezza nella persona di Tascio il generale conosciuto negli uffici della ICER, mentre l'ufficiale escludeva categoricamente di aver conosciuto il Del Re e di aver trattato questioni di commercio con l'estero. (v. verbale confronto Tascio-Del Re, GI 31.10.90).

Sono stati svolti accertamenti tendenti all'individuazione dell'ufficiale dell'AM Tasca nominato dal Del Re. Negli organici dell'AM sono risultati soltanto due ufficiali rispondenti a quel cognome, Tasca Ferdinando, colonnello congedatosi nell'84, e Tasca Francesco, tenente colonnello; i quali, sentiti entrambi, hanno negato di conoscere il Guglielmetti e di aver frequentato a Roma società di import-export (v. esami Tasca Ferdinando e Francesco,GI 27.10.90).

Da indagini svolte sul conto di Guglielmetti, deceduto il 5.07.86, è emerso che questi era effettivamente socio e collaboratore della società di Import-Export ICER S.r.l. con sede a Roma, in via Monte Zebio. E' stata anche accertata la conoscenza con Del Re e con un generale dell'AM di nome Tasca, in quanto su una sua agenda, sequestrata nel corso di una perquisizione, risultano annotate due utenze telefoniche intestate agli stessi (v. perquisizione e sequestro GI 11.10.90).

Il ragioniere Scordino Antonio, dal canto suo, ha negato di aver intrattenuto rapporti con Del Re nè tanto meno ha ricordato la richiesta formulata a costui di un incontro con il Guglielmetti negli uffici della ICER (v. esame Scordino Antonio, GI 14.11.90). Va però rilevato che queste negazioni di qualsiasi conoscenza con Del Re si scontrano con la precisa e dettagliata descrizione che quest'ultimo fornisce della sua abitazione e con le ammissioni di sua moglie, Laura Caruso (v. esame Caruso Laura, GI 28.11.90).

Del Re aveva fatto anche riferimento a tale Leonetti come persona vista o di cui aveva sentito parlare in ambito ICER. E' stato possibile accertare che effettivamente un Ugo Leonetti, pur non comparendo nella compagine sociale, svolgeva un'intensa attività in quella sede dell'ICER insieme al generale Guglielmetti. Un tal Leonetti, non meglio indicato, ma residente a Roma figura anche in un appunto originato dal S.I.S.MI come persona che avrebbe concluso molti affari con i libici. L'appunto porta la data di luglio 80.

Del Re riporta che ai colloqui presso la ICER aveva partecipato in alcune occasioni anche tale Armando Fracassi, già alto funzionario del Ministero del Commercio con l'Estero, che in passato si era occupato di autorizzazioni di commercio di armi verso Paesi sottoposti ad embargo. Fracassi ha ammesso di essere stato presidente della società ICER di Guglielmetti, ma ha negato di aver conosciuto Del Re e di aver partecipato ad alcuni incontri presso la società. Ha ricordato anche la presenza nella società del Leonetti (v. esame Fracassi Armando, GI 19.11.90).

Dalla lettura degli incartamenti del S.I.S.DE si rileva che il Del Re è stata persona di pessima condotta morale e civile, con diversi precedenti e pendenze penali per reati vari. Non aveva mai avuto una stabile occupazione e traeva i mezzi di sostentamento quasi esclusivamente da espedienti. Era ritenuto altresì dissoluto e dedito all'uso ed allo spaccio della droga; di carattere astuto e prepotente, spesso con atteggiamenti provocatori. Era un soggetto venale e senza scrupoli, stimato capace di commettere qualsiasi azione pur di ricavarne un profitto; frequentatore di elementi della malavita comune del Veneto e della Lombardia. Aveva militato nel partito radicale e nel 78 era stato esponente del movimento degli omosessuali "Fuori". Era anche indicato come il "ricettatore" del noto estremista di destra Giuseppe Valerio Fioravanti (vedi acquisizione GI del 13.11.90).

Spella Quintino, all'epoca Capo Centro S.I.S.DE di Padova, ricordava che a svolgere tutti gli accertamenti relativi ai presunti collegamenti tra il medesimo e l'estremista Fioravanti, era stato il segretario Caropresi Aulo, già maresciallo di Pubblica Sicurezza. (v. esame Spella Quintino, GI 14.12.90). Il maresciallo Caropresi ricordava di aver compilato personalmente il profilo sul Del Re pur senza averlo mai conosciuto. Le notizie usate per l'appunto erano state tratte "per il 99%" dal fascicolo presente presso l'archivio della Questura di Padova e per il restante da indiscrezioni raccolte all'interno della Squadra Mobile della stessa Questura. (v. esame Caropresi Aulo,GI 04.01.91). Colucci Giuseppe, dirigente della Digos della Questura di Padova, riferiva che Del Re era noto per la sua adesione al Partito Radicale ed al "Fuori" ma che non risultavano suoi rapporti con l'estremismo di destra. Rimangono ignote pertanto da quale fonte fossero state apprese le notizie di collegamenti di Del Re con ambienti dell'estremismo nero (v. esame Colucci Giuseppe, GI 04.01.91). Allo stesso modo Ferretti Mario, dirigente della Squadra Mobile di Padova, ha dichiarato di non essere a conoscenza di alcun rapporto tra Del Re e Fioravanti (v. esame Ferretti Mario, GI 20.12.90)

Sempre dal carteggio del S.I.S.DE si rileva che l'interesse sul Del Re da un certo punto in poi era andato scemando, in quanto egli era divenuto un personaggio "d'interesse" per il "Servizio militare".

Per quanto attiene al suo collegamento con gli estremisti di destra, nel corso di un esame testimoniale Del Re dichiarava che i suoi rapporti con l'estremista Roberto Rinani risalivano al periodo in cui egli era tesoriere del locale Partito Radicale; a quel tempo aveva conosciuto un "gruppo" costituito da circa dodici ragazzi. Aggiungeva che Rinani girava sempre armato, pur senza avere il porto d'arma, in quanto a suo dire godeva della protezione di un "Capitano" che faceva parte di un Servizio segreto, un Servizio "Inside". I rapporti con Rinani s'erano protratti dai primi del 78 sino alla primavera del 1980. Nell'estate del 79, al caffè Pedrocchi di Padova , quest'ultimo gli aveva riferito che avrebbe partecipato ad una azione terroristica che si sarebbe verificata di lì a qualche mese a Bologna, con l'impiego di esplosivo. Di questa vicenda Del Re ne aveva parlato intorno al 1986 con l'avvocato Menicacci, il quale però gli aveva intimato di non parlarne con le autorità (v. esame Del Re Aldo, GI 15.12.90) In un'altra occasione, Del Re ricordava, un altro ragazzo del "gruppo" dei frequentatori dell'ippodromo, gli aveva chiesto di essere accompagnato a Mantova, asserendo che vi si doveva recare per far visita a un camerata coinvolto nella strage di Brescia; in quella circostanza anche costui gli aveva parlato di un certo "Capitano" che controllava tutta la situazione. Del Re in proposito supponeva che si trattasse dello stesso capitano appartenente al Servizio segreto sopracitato. Il teste da ultimo escludeva di aver mai conosciuto Valerio Fioravanti ,"a meno che non fosse qualcuno di quelli visti in contatto con il gruppo di Rinani, nel quale vi erano a volte anche dei romani" (v. esame Del Re Aldo, GI 15.12.90).

Di particolare rilevanza il contatto di Del Re con l'estremista di destra padovano Rinani, elemento strettamente collegato a Massimiliano Fachini, altro elemento di elevato spessore dell'estremismo nero, condannato in primo grado e poi assolto per la strage di Bologna. Rinani era stato chiamato in causa nella immediatezza della strage come persona direttamente coinvolta nell'attentato, da Presilio Vettore, detenuto già con militanza politica nell'ambito dell'estrema destra. Questi già il 10 luglio precedente la strage aveva avvertito il giudice di sorveglianza di Padova che era in preparazione un attentato contro il giudice Stiz di Treviso e che l'attentato sarebbe stato preceduto da altro attentato, ad opera delle medesima organizzazione, di eccezionale gravità, tanto che avrebbe riempito le pagine dei giornali. Vettore veniva in seguito accoltellato in carcere ed aveva - a seguito di questa violenza - ritrattato le accuse (v. Sentenza Corte d'Assise di Bologna del 16.05.94).

Le dichiarazioni di Del Re concernenti la vicenda di Bologna sono state trasmesse al GI di Bologna per gli approfondimenti ritenuti utili per l'inchiesta sulla strage di Bologna, mentre nessun elemento è stato possibile trarre da esse di collegamenti con il disastro del DC9 Itavia. Interessanti invece sono apparse le dichiarazioni concernenti gli affari di Del Re con il mondo libico, anche se appare poco credibile che egli, a seguito degli eventi di Tobruk, potesse in qualche modo entrare in contatto con rappresentanti - ad ogni livello - del mondo libico. Egli al tempo infatti risultava ricercato dalle Autorità libiche per la partecipazione al tentativo di golpe e per l'esecuzione della pena alla quale era stato condannato.

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