Era l’8 febbraio del 1998 e sulle pagine de La Stampa Carlo Rossella e Maurizio Molinari pubblicarono un’interessante intervista al Muammar Gheddafi, dai contenuti ancora molto attuali. Fu realizzata due giorni prima, incontrando il rais libico in una tenda nel deserto della Tripolitania. Gheddafi era molto loquace, parlò di politica estera, dei rapporti con l’Italia e, in particolare, della strage di Ustica del 27 giugno 1980.
Il testo integrale dell’intervista:
TRIPOLI Deserto della Tripolitania. Notte di venerdì 6 febbraio. Una tenda semplice. Un falò che scalda i soldati. Un lontano belare di greggi. Il colonnello Muammar Gheddafi, raiss della Libia, appare all’improvviso avvolto in una abah di lana marrone scuro. E’ rilassato, porta bene i suoi cinquantasei anni. Si siede su una poltrona damascata. Si copre una parte del viso col mantello per ripararsi dal freddo. Restano fuori solo gli occhi, che non guardano mai in faccia l’interlocutore ma sono rivolti verso l’immensità del Sahara.
Colonnello, nella crisi fra l’Onu e l’Iraq lei con chi sta? «A questa domanda potrei rispondere con un’altra domanda. Che cosa c’entra l’Onu con l’Iraq? Perché su 132 Paesi del mondo vogliono controllare soltanto l’Iraq? Perché non ispezionano Israele che possiede le bombe atomiche? Vorrei una risposta dall’America e dall’Onu».
Ma Israele non ha invaso il Kuwait come Saddam… «Israele possiede missili che hanno una gittata di 1500 chilometri ma di questi nessuno si preoccupa. Non servono certo a combattere i palestinesi. Sono rivolti contro Paesi che non confinano con Israele. Sapete perché il mondo chiude gli occhi davanti a queste cose?».
Perché? «Perché ha paura dell’America».
Anche l’Iran ha paura dell’America visto che ha aperto un timido dialogo con gli Stati Uniti? Forse lei non è andato al vertice di Teheran per questa inversione di rotta? «Io non sono contro il dialogo fra gli Stati Uniti e l’Iran. Non sono mai contento quando c’è tensione nei rapporti fra uno Stato e un altro. Vedo però che anche voi avete dei problemi con gli Stati Uniti per la tragedia della funivia di Cavalese e per tutti quei poveri morti, vittime di quell’aereo americano».
Lei che ne pensa di questo disastro? «Ovviamente mi dispiace per il popolo italiano. Ma prima di parlarne vorrei fare una precisazione. Secondo me l’Italia è una colonia dell’America sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. E’ occupata militarmente. Da qui gli incidenti come questo, dove innocenti turisti vengono ammazzati. Non si devono fare esercitazioni militari nelle località turistiche. Ma non è la prima volta che in Italia succedono fatti di questo genere. Mi domando: chi ha abbattuto l’aereo di Ustica? E rispondo: l’arroganza americana, la prepotenza americana. Conosciamo bene quest’atteggiamento, avevano basi anche in Libia. I soldati si ubriacavano e investiva no con le loro auto i nostri cittadini. Dopo è venuta la rivoluzione e li abbiamo cacciati via Questo è il motivo per cui gli americani odiano Gheddafi. In Italia avete bisogno di uno come Gheddafi, che cacci questi prepotenti».
Lei sembra convinto che l’aereo di Ustica sia stato abbattuto dagli americani… «Certamente».
Ha delle prove, dei documenti, per confermarlo? «Io sono il testimone, perché io in quelle ore andavo in aereo verso la Jugoslavia ed io ho visto in mare la Sesta Flotta americana che manovrava dalle parti di Ustica. C’erano navi militari degli Stati Uniti. La gente che era con me temeva, aveva paura che ci abbattessero con un missile. Però noi, a differenza dei passeggeri del volo Itavia, siamo arrivati a destinazione sani e salvi. Quando abbiamo sentito dell’abbattimento di questo aereo civile, abbiamo capito che probabilmente noi eravamo l’obiettivo. E che loro volevano buttar giù il mio aereo».
A lei non mancano le informazioni sull’Italia. Qual è lo stato dei rapporti fra i due Paesi? Quali sono le difficoltà che ancora si frappongono all’approvazione da parte di Tripoli della dichiarazione congiunta che dovrebbe consentire la normalizzazione delle relazioni con l’Italia? «Per noi l’Italia, dopo 50 anni dalla Seconda Guerra Mondiale, entrata in una nuova epoca: quella dell’alleanza dell’Ulivo al potere. Perciò non abbiamo alcun problema con l’Italia. Per noi questa alleanza dell’Ulivo è un’alleanza progressista, rivoluzionaria. Credo che per la prima volta ci sia davvero la possibilità di un’intesa con l’Italia».
Non le sembra di essere troppo ottimista, ci sono ancora tante questioni aperte a cominciare dai risarcimenti di guerra… «Con l’amministrazione dell’Ulivo si porrà certamente fine a tutti i problemi del passato. E si aprirà una nuova pagina. Io ho speranza che venga fondato un rapporto storico con l’Italia fatto di amicizia, di cooperazione, di commercio, di investimenti congiunti e di turismo. Tutto ciò deve prendere il posto dell’odio e dei ricordi negativi del passato. Non credo che ci sia alcun impedimento per raggiungere tali fini. E credo che siamo prossimi alla sigla di questo accordo».
Se tutto andrà nel giusto senso, cosa avverrà? «Avverrà che la Libia darà una preferenza assoluta all’Italia rispetto a qualunque altro Stato del mondo. I nostri investimenti saranno indirizzati tutti verso l’Italia e così la nostra cooperazione nel settore agricolo ed industriale. Non avremo più bisogno di rivolgerci ad altri Stati».
La sigla dell’intesa dunque è vicina? «Molto vicina. I nostri ministeri degli Esteri hanno già elaborato una bozza».
E il debito di 800 milioni di dollari della Libia nei confronti delle aziende italiane? «Io ho delineato l’orientamento globale. E questa è una nostra iniziativa, forte, per dimostrare la nostra buona intenzione verso l’Italia. Dei dettagli si occupano le istituzioni economiche libiche».
L’Italia ritiene, anche tramite la normalizzazione dei rapporti bilaterali, di poter favorire un recupero della Libia alla cooperazione con la comunità internazionale. Essa passa anche per una normalizzazione dei rapporti fra la Libia e l’Onu, e dunque per l’adempimento da parte libica del dettato delle risoluzioni dell’Orni. Pensa che questa strada sia percorribile e che l’Italia possa svolgere un ruolo in tal senso? «Del comportamento internazionale dell’Italia siamo molto soddisfatti, tanto che io stesso all’inizio di gennaio in occasione degli auguri per il nuovo anno ho fatto sapere al Segretario generale dell’Onu che appoggiamo per il seggio permanente al Consiglio di sicurezza la candidatura dell’Italia e non quella della Germania. Per quanto riguarda la vicenda di Lockerbie, che ha dato origine all’embargo contro la Libia, sono la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che non vogliono trovare una soluzione. Sanno bene che la Libia è innocente per quell’attentato contro il Boeing della Pan Am. Ma non desiderano che venga fatto un processo. Mettono condizioni assurde per non poter arrivare in tribunale. Sanno bene chi ha abbattuto l’aereo di Lockerbie. Ma per motivi politici hanno messo la Libia sul banco degli accusati. Noi li sfidiamo a fare il processo».
Subito dopo l’attentato di Lockerbie i sospetti si erano rivolti verso un altro Paese arabo (la Siria, ndr). Ritiene che fossero fondati? «Su questo argomento no comment».
Nel 1997 il Vaticano ha allacciato relazioni diplomatiche con la Libia ed il Papa ha più volte condannato l’embargo. Vorrebbe incontrare il Papa e per dirgli cosa? «Mi farebbe molto piacere incontrare Giovanni Paolo II. Il nostro rapporto con lo Stato Vaticano è eccellente. Avrei molte cose da dire al Papa. Ma non intendo rivelarle in anticipo».
Si è appena concluso il vertice di Tripoli fra i Paesi del Nord Africa e del Sub-Sahara. Lei ha lanciato la proposta di un’unione economica. Tutti gli altri suoi tentativi di unioni inter-arabe e pan-africane non hanno però avuto successo, perché questo dovrebbe averne? «Il nostro intento è quello di costruire un’unione simile a quella europea proprio per collaborare con l’Europa, per avvicinare anche l’Africa sub-sahariana, molto chiusa, al Mar Mediterraneo. Vediamo un futuro di import, export, turismo, visite, cooperazione, progresso. Anche il problema dell’immigrazione potrà trovare le opportune risposte».
Al vertice di Tripoli eravate in tanti ma mancava l’Algeria. Forse il motivo è la tremenda situazione interna? «L’Algeria è un Paese che ci è molto vicino. Nei giorni del vertice ho parlato con il Presidente algerino. Anche quel Paese ha intenzione di aggiungersi all’unione».
Cosa pensa del fondamentalismo islamico, del terrorismo islamico, dei massacri in Algeria e di attentati sanguinosi come quello di Luxor? «Tutto ciò che fa il terrorismo islamico non ha nulla a che fare con l’Islam. Secondo me gli individui che commettono questi crimini non sono credenti, sono fuori dall’Islam. Tali movimenti sono una “zandaka” (un’eresia, ndr). Sono movimenti anti-islamici. Nessuna religione al mondo permette l’uccisione e l’assassinio di uomini, donne, bambini: persone innocenti. Questo terrorismo è un movimento diabolico, che si deve circoscrivere ed eliminare e tutti sono d’accordo».
Oltre a Lockerbie la Libia ha altre accuse di terrorismo nel proprio curriculum: per l’attentato al volo dell’Uta i giudici francesi chiamano in causa dei libici ed a Berlino altri libici sono sotto processo per l’esplosione nella discoteca «La Belle». Lei è disposto a dare un contributo per fare piena luce su questi episodi degli Anni Ottanta? «Vecchie accuse. La Libia non è mai stata condannata per nessun atto di terrorismo. La Libia è una vittima del terrorismo americano, pratico e psicologico. La Francia non ha chiesto la presenza di nessun libico davanti alla Corte sino ad ora, a differenza di altri. Il giudice responsabile del caso è venuto lui in Libia e abbiamo collaborato al massimo, rispondendo alle sue domande. Poi il giudice ha portato i fascicoli alla Corte. Questo, secondo me, è un modo corretto di procedere. Noi non difendiamo gli individui terroristi, anche se sono libici. E se questi libici sono dei terroristi e vengono condannati devono pagare».
Oltre al terrorismo, la Libia è accusata di possedere armi chimiche e di pensare all’installazione di missili a lungo raggio. Cosa risponde? «Non possediamo questo tipo di armamenti. Ma se li avessimo posseduti nel 1986 gli americani non ci avrebbero attaccati. Dalle accuse di terrorismo in poi si fa molta propaganda contro di noi».
Può dire chiaramente che la Libia oggi non appoggia alcuna forma di terrorismo, neppure quello di Hamas e della Jihad palestinese contro lo Stato di Israele? «Non credo che la lotta del popolo palestinese possa essere considerata terrorismo. Gli atti e le operazioni contro gli innocenti sono però inaccettabili e per quegli atti di terrorismo deve pagare chi li commette. Per quanto riguarda il principio, la lotta del popolo palestinese non è terroristica, al contrario chi commette atti terroristici contro i palestinesi sono gli israeliani».
Per uscire dal vicolo cieco dell’embargo Onu lei non sembra proporre nulla di nuovo, al di là di una difesa d’ufficio. Ma il suo Paese è prostrato dalle sanzioni, nel 1997 il dinaro è stato pesantemente svalutato, c’è crisi, i rimpasti di governo si succedono. Come uscirne? «Certamente la Libia è stata gravemente danneggiata dall’embargo. Ne risentiamo. Questa sofferenza era l’obiettivo dell’America. Una superpotenza arrogante che con le sanzioni vuole distruggere il nostro popolo. Ma l’America in futuro a forza di tutti questi embarghi contro molti Paesi, da Cuba all’Iraq, dalla Somalia alla Corea del Nord, raccoglierà quello che ha seminato: l’odio. Anche in Europa episodi come quello dell’aereo di Cavalese non servono certo a farsi amare».
Come sarà la Libia dopo di lei? «Continuerà ad essere un Paese di rivoluzionari».
La Stampa, 8 febbraio 1998 di Carlo Rossella e Maurizio Molinari